Antonio Fazio: quando i banchieri avevano la «pelle d’oca»

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Domani di Maurizio ChiericiLa strategia è evidente: passare da raggirato e presentarsi come una vittima. Antonio Fazio, l’ex governatore della Banca d’Italia finito nei guai per le scalate del 2005, lo scorso 13 gennaio ha sostenuto questo ruolo nell’udienza del processo milanese sulla vicenda Antonveneta. A guardare indietro, però, la situazione non sembra stare in questi termini. In attesa delle sentenze, infatti, ci sono le indagini che raccontano una storia di finanza disinvolta, capitali inesistenti, controlli laschi e affettuose liaison professionali.

Provando a dare un’occhiata, una prima curiosità emerge dalle dichiarazioni che Fazio, nato nel 1936 ad Alvito (Frosinone) e con un master al Mit di Boston in tasca, ha reso nei giorni scorsi. Nega di aver avuto rapporti personali con Fiorani, lo riteneva solo una «persona simpatica» nella quale mal ripose la sua fiducia. Se però torniamo indietro, vediamo che Giampiero Fiorani, amministratore delegato della Banca Popolare di Lodi, ha contatti sempre più stretti con il governatore. Un primo passo è quello di scalzare dalle sue grazie il discusso manager-banchiere Cesare Geronzi. E se l’amicizia tra i due appare evidente in contesti pubblici dal 2002, condividono la comune frequentazione di un sacerdote, amico del primo e consigliere spirituale del secondo, mentre una delle figlie di Fazio collabora con la Bpl che le offre spazi dove presentare i suoi libri.

C’è poi la questione del «partito del governatore». Nel 2004, Fazio è inviso a una parte della maggioranza, capitanata dal ministro dell’economia Giulio Tremonti e dal portavoce di Forza Italia Sandro Bondi. Il primo vorrebbe introdurre alcune riforme attraverso la cosiddetta legge sul risparmio, ridimensionando i poteri di Palazzo Kock e trasformando la carica di governatore da vitalizia a una carica a tempo. L’inquilino di via Nazionale, dal canto suo, è nei guai per i crack Parmalat e Cirio (non ha lanciato un tempestivo allarme, né avrebbe monitorato a sufficienza per rendersi conto delle malversazioni di Capitalia e Bpl).
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Quando le indagini su piazza della Loggia vennero manipolate

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Domani di Maurizio ChiericiNei giorni scorsi, il Fatto Quotidiano riportava – unico tra le testate nazionali, se si esclude Radio Radicale, che ne ha pubblicato su web la registrazione integrale – la cronaca di un’udienza di fine anno del processo per la strage di piazza della Loggia, avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974. A firmare quella cronaca è Elisabetta Reguitti, che ascolta in aula la deposizione di Angiolino Papa.

Papa venne arrestato nel gennaio 1975 nell’ambito di un’indagine su Ermanno Buzzi per la morte di Silvio Ferrari, un neofascista ventiduenne vicino agli ambienti milanesi della Fenice di Giancarlo Rognoni e Nico Azzi e morto nel maggio 1974 mentre trasportava una bomba sulla sua Vespa. Ermanno Buzzi, invece, era un criminale comune di orientamento neonazista e con aspirazioni dandy. Nel 1979, in una sorta di sillogismo giudiziario che dall’indagine Ferrari portò a piazza della Loggia, sia Papa che Buzzi saranno condannati rispettivamente a dieci anni e all’ergastolo per la strage di Brescia. Buzzi poi, nel 1981, verrà assassinato nel carcere di Novara da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli e l’anno successivo i suoi coimputati – Papa compreso – saranno assolti dalle accuse per i fatti di Brescia con una sentenza divenuta definitiva.

Sul finire del 2009, dunque, Papa è tornato a raccontare dei metodi investigativi tutt’altro che ortodossi usati per incastrarlo. E racconta di Francesco Delfino, l’ufficiale dei carabinieri che si occupò delle indagini per la strage di Brescia fino al 1977, quando venne trasferito prima a Milano per passare l’anno successivo al Sismi sotto la cui egida rimase fino alla seconda metà degli anni Ottanta. Di questo periodo si ricorda la sua frase «si ha suicidato», riferita nel 1997 alla commissione stragi: si riferiva alla morte del banchiere Roberto Calvi, avvenuta a Londra il 17 giugno 1982, quando Delfino era capo centro Europa, e con quella bizzarra forma grammaticale – affermò – voleva dire che dubitava dell’ipotesi del suicidio.
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Ali Ağca, i suoi segreti per due milioni di euro

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Domani di Maurizio ChiericiSembra un periodo intenso, quello che ci si appresta a vivere a ridosso del quarantesimo anniversario di Piazza Fontana. Mentre la procura di Milano potrebbe aprire un nuovo fascicolo contro ignoti per i fatti del 12 dicembre 1969 grazie al ritrovamento di un’agenda di Giovanni Ventura, il neofascista trevisano che negli anni di piombo fu l’utile spalla (e forse qualcosa di più) dell’avvocato ordinovista Franco Freda, altre vicende legate ai misteri italiani si affacciano.

È infatti notizia di questi giorni una prossima scarcerazione eccellente. Quella di Mehmet Ali Ağca che – si apprende da fonti d’agenzia – tornerà (o dovrebbe tornare) libero il prossimo 18 gennaio. Probabilmente risulta superfluo ricordare che l’uomo, di origine turca, sparò il 13 maggio 1981 a Giovanni Paolo II e che per questo ha scontato un lungo periodo di detenzione prima di ottenere la grazia nel 2000 dall’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Ma il tempo passa e il terrorista, che oggi è alla soglia dei 52 anni, ha la possibilità di rifarsi una vita. Occorre pensare al futuro, deve aver pensato quando, dal carcere di Ankara, ha chiesto 2 milioni di euro per concedere l’esclusiva della prima intervista da uomo libero. E per tornare a vivere in Italia, dove forse avrà modo (sempre «per mercede?») di aggiungere fumo alle parole – raramente riscontrate da fatti – pronunciate in quasi tre decenni.

Vediamo dunque chi è e cosa ha detto Ağca in tutto questo arco di tempo per capire chi nei prossimi mesi camminerà forse in mezzo a noi. Condannato all’ergastolo (ma poi la pena verrà via via decurtata fino all’estinzione e all’estradizione in Turchia) per il tentato omicidio del pontefice dopo aver già ucciso in patria, il «lupo grigio» (soprannome derivato dall’organizzazione terroristica a cui apparteneva) si pone velocemente al centro di un complotto internazionale. Di certo il panorama che descrive è suggestivo: difeso d’ufficio dall’avvocato Marina Magistrelli, due volte senatrice per il centro-sinistra nel 2001 e nel 2006, secondo il racconto che il turco fa dei fatti, di mezzo ci sarebbero i servizi segreti bulgari (snocciola il nome del committente dell’omicidio, il militare Zilo Vassilev, di stanza nella capitale italiana) e complici mai confermati che avrebbero dovuti attivarsi nel caso di fallimento di Ağca. Fino ad addentrarsi in alcune delle vicende più impenetrabili della storia recente.
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