La storia di Marta, del manicomio San Giovanni di Trieste e di un’alba che arriva quando sembra ormai perduta

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Marta che aspetta l'alba di Massimo PolidoroIl prossimo 29 agosto saranno trascorsi 31 anni da quando morì Franco Basaglia, l’anima della legge 180 con cui si riformava la psichiatria in Italia e si chiudevano i manicomi. Ci sono due storie che possono rievocarla in termini efficaci, la figura del riformatore dell’approccio e della cura della “pazzia”. Sono le storie di una paziente e di un’infermiera, raccontate nel libro appena uscito per Piemme Marta che aspetta l’alba, scritto dal saggista e divulgatore Massimo Polidoro.

Si inizia nel 1967, 15 luglio per la precisione, a Trieste, dove Marta sta per festeggiare il suo diploma di maturità e fantastica del futuro – rimpiangendolo quasi in anticipo – con la sorella maggiore, Giuliana. Sarà l’ultimo scorcio di felicità per la ragazza perché, appena partita per la Gran Bretagna alla ricerca della libertà e della vita adulta, torna a casa a causa di un incidente in cui muoiono entrambi i genitori. E la sorella, neosposa di un buon partito del posto, non potrà fare nulla per salvarla dall’alcolismo e poi dall’internamento al San Giovanni, il manicomio di Trieste, dove Marta sprofonderà nel girone dei “sommersi”, come li intendeva Primo Levi, e poi nella lobotomia.

Domani di Maurizio ChiericiLa seconda storia, invece, è quella di Mariuccia Giacomini, andata in moglie a 19 anni all’uomo che pensava quello giusto, e che poi sfida i preconcetti pre-legge sul divorzio lasciandolo e seguendo il suo istinto vitale. Però deve trovarsi un modo per mantenere se stessa e la sua bambina. Lo trova cominciando a fare l’infermiera proprio al San Giovanni. Un lavoro che significa a lungo sgrassare pavimenti, lavare i pazienti, passare i vetri. Fare la sguattera, insomma.
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“Eravamo solo bambini”: lo chiamavano il nido degli angeli, era il regno della brutalità

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Eravamo solo bambiniErano gli anni Sessanta, ma a Grottaferrata, cittadina del Lazio non lontana da Roma, gli echi di contestazioni e sommovimenti politici erano così distanti da non esistere. Qui, raccontano gli atti giudiziari, c’era un istituto, il Santa Rita, che doveva “accogliere 50 subnormali con trattamento familiare”, affidati alla sua direttrice, suor Maria Diletta Pagliuca, e ai suoi collaboratori. Ma in quegli anni non si faceva tanta attenzione alle facoltà intellettive dei piccoli ospiti e così bambini con problemi familiari venivano mischiati a coetanei a cui si aggiungevano difficoltà di altra natura.

Tutti loro, però, erano accomunati da un elemento: i maltrattamenti che subivano dal personale e dalla direttrice. Malnutriti, non assistiti, lasciati al freddo, percossi, legati e puniti ben oltre la tortura fisica e psicologica, i piccoli hanno subito di tutto senza potersi difendere. La vicenda di questa casa di accoglienza, chiamata “il nido degli angeli”, viene raccontata nel libro di Massimo Polidoro Eravamo solo bambini in presa diretta, attraverso i ricordi di Mario, un dodicenne che dopo aver girato vari istituti approda qui e vive fin dal primo momento la brutalità a cui ognuno viene sottoposto. È una vita di espedienti, quella degli ospiti che riescono a reagire, fatta di piccoli stratagemmi per tutelarsi dalle angherie quotidiane. E di devastante passività l’esistenza di chi invece non le capacità per sfuggire alle attenzioni degli aguzzini.

Quando questa vicenda verrà a galla, grazie all’indagine di un carabiniere, le accuse formulate a carico della direttrice comprenderanno “maltrattamenti aggravati e continuati”, “gravi lesioni”, l’aggravante dei “motivi per lucro”, “truffa a enti pubblici” e “sequestro di persona”. Ma le condanne furono tutto sommato miti: quattro anni e qualche mese, concessione di attenuanti generiche e assoluzione per i reati più gravi. Le “condanne” per i piccoli ospiti, invece, saranno a vita, segnati nell’infanzia da una violenza che non così di rado perpetreranno su altri in età adulta.
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