Questo articolo è stato scritto a quattro mani con Roberto Laghi e pubblicato (in una versione leggermente ridotta) sul numero di ottobre di La Voce delle Voci.
È il 4 aprile 2002. Sono circa le undici di sera quando i vigili del fuoco e i carabinieri di Tivoli trovano il corpo senza vita di Michele Landi nella sua casa di Guidonia Montecelio, a una trentina di chilometri da Roma. È stata la fidanzata ad allertare le forze dell’ordine perché da troppe ore Michele non risponde al telefono. Una corda intorno al collo con un nodo scorsoio, le gambe piegate con le ginocchia appoggiate sul divano, l’appartamento in disordine, ma senza segni di violenza. Quella mattina Landi avrebbe dovuto tenere una lezione agli uomini della guardia di finanza alla Luiss Management, ma non si è mai presentato. Cellulare spento e telefono di casa che squilla a vuoto. L’ipotesi del suicidio è la prima a farsi strada.
Ma chi era Michele Landi e di cosa si occupava? Tecnico informatico, era stato consulente di Umberto Rapetto, tenente colonnello della Fiamme Gialle, e del pubblico ministero di Palermo Lorenzo Matassa. Nelle loro prime dichiarazioni, entrambi escludono l’ipotesi del suicidio. Di più: Matassa pensa a un omicidio maturato in ambienti ben precisi: «Penso ai servizi segreti, quelli che hanno cercato di dare un segnale a chi sta lavorando sull’omicidio del professore Marco Biagi», secondo quanto riporta il quotidiano La Stampa del 7 aprile.
Un parere «informale» su un’indagine di terrorismo
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