Il dibattito sui giornalisti freelance: le ragioni per cui, nonostante tutto, continuare a fare un mestiere del genere

Standard

Non faccio l’inviata di guerra, ma quella che un tempo neanche troppo lontano si sarebbe chiamata – senza che fosse un insulto, com’è diventato successivamente – la pistarola (il senso che attribuisco alla parola è quello descritto per quanto in altri tempi da un grande giornalista, Marco Nozza). Mi occupo dell’attualità del passato, degli anni delle stragi, della P2, dei patti a lungo non detti tra pezzi dello Stato e varie forme di criminalità, compresa quella organizzata. Insomma, in buona sostanza e sintesi, quando si è trattato di scegliere una specializzazione, ho scelto quella che conduce al terrorismo e alla criminalità politica. E non perché abbia particolari pulsioni gerontofile, come qualcuno ha ironizzato, ma perché ero convinta – e lo sono sempre di più, via via che gli anni passano – che per comprendere quello che accade oggi, dal disfacimento istituzionale a quello dei partiti, dalla crisi economica da cui sembra di poter uscire solo con ricette unicamente a suon di ripresa dei consumi (e del consumismo) a crisi internazionali come quelle con il Medioriente o con l’Azerbaijan, non si possa fare a meno di sapere ciò che è stato.

Rispetto alle colleghe Barbara Schiavulli o Francesca Borri, non vado nelle zone di guerra calda. Ho visitato aree come i Balcani o qualche repubblica ex sovietica al massimo per raccontare quello che era accaduto dopo regimi, conflitti o cataclismi economici. Accorgendomi, per esempio, come nella ex Jugoslavia sia difficile raccontare gli anni di Milošević perché, anche laddove forme oppressive non ci sono più o si sono mitigate, i quadri della pubblica amministrazione sono rimasti gli stessi. E allora i dissidenti “normali”, non degli eroi, ma i semplici cittadini che schifavano la pulizia etnica e che rischiavano di sparire solo perché non partecipavano a manifestazioni imposte dall’alto, ancora oggi fanno fatica a raccontare. I dittatori passano, gli ingranaggi delle dittature c’è caso che restino più a lungo.
Continue reading

Scorci di vite palestinesi oltre i riflettori di guerra e media

Standard

Palestina borderlinePeacelink pubblica una lunga recensione firmata da Francesca Borri e dedicata a un libro uscito lo scorso maggio per ISBN Edizioni. Si tratta di Palestina borderline – Storie da un’occupazione quotidiana, scritto da Saree Makdisi, docente di letteratura inglese all’università della California cresciuto a Beirut ed esperto di Medioriente (su questo blog c’è un archivio dei suoi scritti). Non è un testo che ha per protagonista la guerra nei suoi aspetti più eclatanti, ma i protagonisti sono i “signori nessuno” che con gli effetti della guerra ci devono aver a che fare, che siano in patria o all’estero. Quelli che si mettono in fila dovendo sopportare trafile burocratiche e quotidiane prevaricazioni. O che vivono rincorrendo visti per ricongiungimenti familiari da sempre negati. O – ancora – testimoni muti di logiche bancarie che sono più forti e più opprimenti di qualsiasi forma di estremismo. Questa la presentazione del libro:

Questo libro non racconta storie di kamikaze, ma storie di persone comuni. Come quella di Sam Bahour, un uomo d’affari di Al bireh, di Mohammad Jalud, un agricoltore che vive a Qalqilya, di Samira che lavora a Gerusalemme. Esistenze che sarebbero banalmente normali, se non dovessero fare i conti con gli orrori di un’occupazione quotidiana […]. Saree Makdisi viaggia nei Territori, scatta fotografie, raccoglie dati e informazioni sulle condizioni di vita dei palestinesi e spiega come il cosiddetto «processo di pace» nasconda di fatto il progressivo restringimento della geografia della Palestina e una serie di misure di sicurezza punitive imposte dallo Stato di Israele. Palestina borderline descrive la realtà di un Paese dai confini di filo spinato, ponendo finalmente l’essere umano al di sopra delle questioni politiche.

E aggiunge Francesca Borri nella recensione:

Le prime volte, un checkpoint incendia indignati: ma rapida, subentra una sorta di aritmetica istintiva del male minore: difendere da uno sputo è regalare il pretesto per una chiusura. Si è contagiati così da una gramigna di tolleranza, via via più larga – perché ogni giorno è giorno di infinite ingiustizie minime: fino a riscoprirsi pazienti in fila a un checkpoint, anestetizzati come davanti a un semaforo rosso. E se il pericolo, scriveva Tiziano Terzani, è che alla guerra ci si abitua, questo libro non è allora per principianti, ma veterani della questione palestinese: per quelli che non si sorprendono più – perché è qui che l’occupazione vince: quando si converte in paesaggio.