Erano le 7 del mattino del 13 settembre 1969. L’estate stava perdendo mordente, la morsa dell’afa padana abbandonava Padova. Ma quell’estate non era stata torrida solo per ragioni climatiche. Alberto Muraro, carabiniere in congedo che faceva il portinaio in uno stabile di piazza Insurrezione, doveva pensare a questo e alla deposizione che due giorni dopo avrebbe dovuto rendere di fronte al procuratore Aldo Fais.
Poi la moglie l’aveva perso di vista, non sentiva più nessuno dei rumori che Alberto produceva mentre faceva le pulizie nel condominio. Così era andata a cercarlo e aveva trovato il corpo del marito a terra, immobile. Allora aveva guardato verso l’alto, verso il terzo piano, scorgendo il secchio con l’acqua e il sapone che si era portato dietro per lavare a terra.
Alberto Muraro morì così, precipitando nel vuoto. Nelle settimane precedenti era stato minacciato. «Va a finire che mi troverete precipitato dentro la tromba dell’ascensore o delle scale dopo che mi hanno dato una legnata in testa», aveva detto solo qualche giorno prima. Una profezia avverata.
Ma che aveva da dire quel carabiniere in pensione? Solo tre mesi prima, proprio nello stabile di piazza Insurrezione, la polizia aveva effettuato degli arresti. Presunti terroristi con armi ed esplosivo. L’operazione era coordinata da un commissario, Pasquale Juliano, il capo della squadra mobile che, agli albori della strategia della tensione, era stato proiettato in un’inchiesta che nulla aveva a che fare con la criminalità comune, di cui si occupava.
Nel corso delle settimane aveva capito che a Padova succedeva qualcosa di strano. La città stava diventando un centro nevralgico dell’eversione nera di Ordine nuovo. Ma Juliano commise una grave “imprudenza” che avrebbe pagato: aveva messo dietro le sbarre proprio il nucleo ordinovista che preparava l’attentato di Piazza Fontana, quello che avvenne il 12 dicembre 1969 a Milano, nella Banca nazionale dell’agricoltura.
In carcere accadde un altro fatto strano: i neofascisti che prima si accusavano a vicenda trascorsero una notte nella stessa cella e poi cominciarono a puntare il dito contro Juliano, accusandolo di aver falsificato le prove a carico degli arrestati. L’unico che poteva testimoniare a favore del poliziotto era Alberto Muraro, che aveva assistito agli arresti avvenuti peraltro nell’edificio in cui abitava uno dei leader di quell’organizzazione, Massimiliano Fachini. Il suo appartamento era proprio al terzo piano. Ma la storia prese un’altra piega: gli arrestati vennero liberati, Juliano incriminato e trasferito e Muraro morto, probabilmente ucciso. E anni dopo riconosciuto come vittima preventiva della strage di Piazza Fontana. Nessuno ascoltò nemmeno l’avvertimento del commissario: «Sono imminenti degli attentati». Un’altra profezia avverata.
Qusto articolo è stato pubblicato sul settimanale “In famiglia”
One thought on “Alberto Muraro: la vittima preventiva della strage di Piazza Fontana”
Comments are closed.