Partiamo con una serie di nomi. Sono quelli di Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Galatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni, Vittorio Mocchi, Gerolamo Papetti, Mario Pasi, Carlo Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silva e Attilio Valè. A questi aggiungiamo altri due nomi: Alberto Muraro e Giuseppe Pinelli. I primi 17 sono le vittime dirette che, alle 16.37, fece l’ordigno che esplose il 12 dicembre 1969 all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana.
Gli altri due sono le vittime collaterali, addirittura, nel caso di Muraro, preventiva. Quest’ultimo era un carabiniere in pensione che infatti morì tre mesi prima di quell’esplosione, cadendo dal terzo piano di un condominio di Padova, in piazza Insurrezione, dove abitava Massimiliano Fachini, uno degli elementi di vertice di Ordine Nuovo. Una morte a tutt’oggi senza colpevoli. E poi c’è Giuseppe Pinelli, per tutti Pino, un anarchico che fu condotto in questura dopo l’attentato e che morì il 15 dicembre 1969 precipitando da una finestra dopo essere stato trattanuto per tre giorni.
Sono trascorsi 48 anni da quando, è stato detto, l’Italia perse l’innocenza ed entrò ufficialmente nel periodo noto come strategia della tensione. Un lungo periodo che, attraverso anni chiave come il 1974 e il 1980, ha fatto registrare decine di morte sui treni, nelle piazze, per le strade e nelle stazioni. L’anniversario della strage di piazza Fontana cadeva ieri, il 12 dicembre, e la ricorrenza torna utile per fare il punto su quanto si sa di quel periodo, dato che, al contrario di quello che sostengono in tanti, sono molte le informazioni a disposizione di chi vuole capire un pezzo importante della storia del terrorismo italiano.
Una giornalista di lungo corso come Sandra Bonsanti proprio ieri scriveva che “la pista dei fascisti veneti era nota dal giorno dopo” mentre Guido Salvini, il giudice istruttore che seguì l’inchiesta poi confluita nel processo giunto a sentenza definitiva nel 2005, ha considerato sul Fatto Quotidiano che “le indagini milanesi degli anni Novanta non sono state affatto inutili. Anche le sentenze di assoluzione hanno una ‘virtù segreta’ e cioè scrivono esplicitamente cose chiare. Scrivono che colpevole era Carlo Digilio, poi prescritto per la sua collaborazione con la magistratura, partecipe alla fase organizzativa e alla preparazione dell’esplosivo. Scrivono che l’ideazione e l’esecuzione della strage era sicuramente riferibile alle cellule di Ordine nuovo del Veneto e che nei confronti di Franco Freda e Giovanni Ventura è stata raggiunta, con i nuovi elementi raccolti, la prova ‘postuma0 della loro colpevolezza, non essendo più giudicabili perché assolti per insufficienza di prove nei processi precedenti”.
Questi sono punti di partenza per raccontare un capitolo rilevante del recente passato di questo Paese. Punti che, oltre alle sentenze per piazza Fontana, trovano conforto in quelle per la strage di Piazza della Loggia, consumatasi a Brescia il 28 maggio 1974 e che lasciò a terra 8 morti. Pochi mesi fa, 43 anni dopo quello scoppio, la Prima sezione della Cassazione ha condannato in via definitiva all’ergastolo Carlo Maria Maggi, il medico il 82 anni che fu l’ispettore veneto di Ordine nuovo, e Maurizio Tramonte, 65, il neofascista e l’ex fonte Tritone dei servizi segreti al momento ancora in carcere in Portogallo, dov’era scappato.
A fronte di tutto ciò ci sono le sentenze per la strage di Peteano del 31 maggio 1972 in cui morirono tre uomini dell’Arma, il brigadiere Antonio Ferraro e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni, e per la quale è stato condannato all’ergastolo un altro ordinovista, stavolta reoconfesso, Vincenzo Vinciguerra. Questura di Milano del 17 maggio 1973 e ancora treno Italicus del 4 agosto 1974. Anche laddove le sentenze sono assolutorie, appunto, come nel caso dell’Italicus, scoppiato vicino a Bologna, nei pressi di San Benedetto Val di Sambro, un altro elemento che torna sempre è il ruolo dei neofascisti, spesso infiltrati nelle file della sinistra e degli anarchici, l’appoggio della P2 di Licio Gelli, definito dalla Commissione Anselmi come retroterra politico e finanziario della strage, e i depistaggi di fette di forze dell’ordine e di apparati dello Stato.
Lo stesso scenario che torna per la strage di Bologna, quella del 2 agosto 1980 (85 morti). Il 21 marzo 2018 si apre il processo a Gilberto Cavallini, l’ex militante dei Nar accusato di concorso con i neofascisti già condannati per quel massacro. E rimane aperto anche il capitolo sui mandanti, di recente avocato dalla procura generale di Bologna che prosegue con le indagini per cui era stata chiesta l’archiviazione. Ma il mix – neri, depistatori di Stato, piduisti e anche strutture atlantiche in ruolo tutt’altro che marginale, mosse dall’anticomunismo estremo – è sempre quello.
A proposito degli Stati Uniti, fa notare ancora il giudice Guido Salvini: “L’atteggiamento dei servizi di sicurezza americani, che non avevano comunque disdegnato di rifornire anche di armi la cellula ordinovista veneta, potrebbe quindi essere definito di “controllo senza repressione”. Un atteggiamento se non di ispirazione di una strategia, certo di accettazione, e ovviamente senza informare le autorità italiane. Questo ruolo di “osservatori benevoli”, al limite della cobelligeranza, in eventi via via più gravi ricoperto dai nostri alleati fa entrare in un piano di realtà quello che sembrava solo uno slogan da bollettino di controinformazione: strage di Stato con colpe della Cia”.
A valle di tutto ciò, chi sollevasse l’accusa di complottismo potrebbe essere facilmente smentito da documenti ufficiali. Molteplici, concordanti e che chiamano in causa in quel periodo anche il ruolo svolto dalla criminalità organizzata, a iniziare da cosa nostra e ‘ndrangheta. Dunque, oggi, non è possibile affermare che non si sa e non si saprà. Mancano dei tasselli, alcuni importanti, come i mandanti, e non solo per la strage di Bologna. Ma il quadro storico-politico è ormai chiaro.