Gli hanno sparato alle spalle sette proiettili 7.65. A essere puntata contro Giorgio Boris Giuliano, 49 anni, capo della squadra mobile di Palermo, è una Beretta semiautomatica che si trova da almeno venticinque o trenta centimetri da lui. È una mattina di pieno luglio, il 21 per la precisione, e malgrado la stagione estiva sia nel pieno, il vicequestore aggiunto esce dall’appartamento preso in affitto in via Alfieri a fine 1963 e varca la soglia del bar Lux di via De Blasi, a Palermo.
Chi lo incrocia quel mattino, se ne stupisce quasi perché Giuliano di solito ci andava quando accompagnava i figli a scuola, approfittando di quel caffè per comprare loro le merende. Invece il 21 luglio 1979 si ferma lì. Ordina un espresso e sul momento nessuno, nemmeno il titolare del locale, Giovanni Siragusa, che solo il 20 luglio precedente aveva ricevuto una lettera anonima su cui c’era scritto con timbri a inchiostro «Morirai tu e Contrada», sembra notare un uomo che entra appena dopo.
È sui 35 anni, alto approssimativamente poco meno di un metro e 70, robusto e con braccia poderose, fitti capelli castano scuri su un volto senza barba né baffi. Elementi che lì per lì non sembrano poter condurre in tempi rapidi a dare un nome al killer. Ma l’identikit elaborato nelle ore successive al delitto porta a Giacomo Bentivenga. Identità confermata nel giro di breve anche da una confidenza.
Quello di Bentivenga non è un nome nuovo negli uffici della squadra mobile di Palermo. Quelle generalità, infatti, sono riportate anche su alcune prescrizioni mediche trovate qualche tempo prima in un covo. È quello di via Pecori Giraldi ed è lì dentro che saltano fuori le prescrizioni, scritte prima e dopo un intervento chirurgico per l’asportazione dell’appendice. Ma soprattutto su di lui grava un sospetto: che Giacomo Bentivenga sia un nome falso e che in realtà quell’uomo piccoletto e massiccio si chiami Leoluca Bagarella, nato a Corleone il 3 febbraio 1942. Sospetto che, insieme all’accertata amicizia con Antonino Gioè, corrisponde a verità e che significa un fatto: appartenenza a cosa nostra.
Le indagini per il delitto di Boris Giuliano vengono seguite dal sostituto procuratore Gioacchino Agnello e da un giudice istruttore dell’ottava sezione del tribunale di Palermo il cui nome è destinato a segnare per sempre la storia della lotta alla criminalità organizzata: Paolo Borsellino. I due magistrati si mettono all’opera e sono in grado di stabilire una data d’inizio alla fine della vita del capo della squadra mobile nel capoluogo siciliano: il 26 aprile 1979, il giorno in cui ha luogo una rapina in una banca e in cui muore una guardia giurata, Alfonso Sgroi. Ma prima di arrivare a questo punto occorre capire chi è la vittima di quell’esecuzione.
Giorgio Boris Giuliano nasce a Piazza Armerina il 20 ottobre 1930, terzo di quattro fratello di una famiglia borghese d’origine messinese e in gioventù nutre due grandi passioni: quella per la musica jazz (che lo aiuterà a migliorare l’inglese, lingua che gli piace e che perfeziona durante un soggiorno in Gran Bretagna quando fa ancora l’università, ma che soprattutto gli consentirà di partecipare nel 1975 a un corso di perfezionamento a Quantico, Virginia, all’accademia del Fbi) e per il basket. In famiglia rimarrà sempre Giorgio mentre Boris, quasi non fosse un secondo nome, ma un nome di battaglia, diventerà quello usato dai colleghi della “squadra” e dai cronisti.
Laureato in giurisprudenza il 23 giugno 1956, fa il concorso per entrare in polizia, aspirazione che cullava fin dall’adolescenza, ma in attesa dell’esito va a lavorare per un’azienda privata, la Plastica Italiana, dove prima diventa responsabile commerciale dell’area Sicilia-Calabria. Ma è uno bravo anche in questa occupazione e così gli viene proposto di trasferirsi a Milano insieme alla famiglia, da dove si sposterà periodicamente per raggiungere gli impianti di Trino Vercellese.
Chi lo ha conosciuto, lo definisce un “individualista generoso”, uno di quelli che di certo non presenta istanze socialisteggianti, ma che viene mosso da una pulsione di taglio sociale tale per cui se qualcuno ha la possibilità di stare meglio, allora il vantaggio è di tutti. Ed è un “eroe normale”, per usare le parole del figlio, Alessandro Giuliano, poliziotto anche lui e attualmente capo della squadra mobile di Milano dopo una serie di successi investigatori, come la cattura del serial killer Michele Profeta.
Un “eroe normale” perché non era un duro, uno sbirro da film americano, ma uno che svolgeva il suo lavoro in silenzio e che nella vita privata sapere essere un padre non autoritario, disponibile, pronto al dialogo. E poi, in servizio, tornava a essere un segugio che svolge il suo incarico senza pretendere nemmeno visibilità. Di lui scriverà anni dopo Paolo Borsellino nella sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio del maxi processo di Palermo:
«Deve […] ascriversi a ennesimo riconoscimento dell’abilità investigativa di Giuliano se quanto è emerso faticosamente solo adesso, a seguito di indagini istruttorie complesse e defatiganti, era già stato da lui esattamente intuito e inquadrato diversi anni prima. Senza che ciò voglia suonare critica ad alcuno, devesi riconoscere che se altri organismi statali avessero adeguatamente compreso e assecondato l’intelligente impegno investigativo del Giuliano, probabilmente le strutture organizzative della mafia non si sarebbero così enormemente potenziate e molti efferati assassini, compreso quello dello stesso Giuliano, non sarebbero stati consumati».
A Palermo, destinazione chiesta esplicitamente scrivendo una lettera al capo della squadra mobile di allora, Umberto Madia, Giuliano ci arriva nel 1963 e i primi tempi, assegnato ad incarichi amministrativi, scalpita per passare a ruoli più operativi. Il 30 giugno di quell’anno, infatti, si consuma la strage di Ciaculli, dal nome della borgata dove salta per aria una Giulietta e che darà origine alla commissione parlamentare antimafia. È il culmine di una faida che dura da tre anni tra i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera ai Greco di Ciaculli e l’autobomba uccide sette persone. Sono tutti artificieri, carabinieri e poliziotti e quella è l’azione più violenta della cosiddetta “stagione delle Giuliette”, con automobili di quel tipo che saltano per aria.
Il processo che ne scaturirà, detto dei “centoquattordici”, è uno dei primi di massa celebrati contro cosa nostra, si conclude a Catanzaro con assoluzione per la maggior parte degli imputati ed era necessario dunque ripensare le modalità investigative in tema di criminalità organizzata. A iniziare a farlo è lo stesso Giuliano, che da tempo ormai lavora alla mobile sotto la guida dell’allora capo, Bruno Contrada (a questo incarico ci arriva nel 1973, ma si trova a Palermo anche lui per averlo chiesto dal 4 novembre 1962 dopo aver prestato servizio presso il commissariato di Trezze Romano).
Lo fa in anticipo, senza gli strumenti a disposizione in futuro, perché per avere i moderni pool antimafia occorra attendere ancora molto tempo: l’approvazione, il 13 dicembre 1982, della legge Rognoni-La Torre che introduce il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni, ma soprattutto l’omicidio avvenuto a fine 1983 di Rocco Chinnici, il giudice istruttore con cui lavoravano Giovanni Falcone, Paolo Borsellini e Antonino Caponetto.
La squadra mobile di Palermo, che dipende dalla seconda sezione della questura, la polizia criminale, diventa il fulcro di questa nuova mentalità, nonostante (o forse proprio in forza del fatto che) nessuno dei suoi componenti sia un palermitano. Lo stesso accade per il nucleo investigativo dei carabinieri, che dal comando di Carlo Alberto Dalla Chiesa passa attraverso una serie di ufficiali che avranno la stessa convinzione di Giuliano. Con loro i rapporti non saranno sempre lineari, almeno fino al luglio 1979, ma a partire da quel momento, e soprattutto per merito del capitano Emanuele Basile, sarà possibile proseguire con le nuove modalità di lotta alla mafia.
A fine 1963, quando Giuliano prende servizio nel capoluogo siciliano, Palermo è una città che viene da cinque anni di boom economico. Da 365 mila abitanti passa a 665 mila, il che significa fioritura dell’edilizia anche grazie alle concessioni che recano la firma dell’assessore ai lavori pubblici e futuro sindaco Vito Ciancimino. Sono gli anni del “sacco di Palermo”, quando la città si estende in modo selvaggio a Ovest verso la Piana dei Colli.
Ma c’è anche la crescita del mercato della droga, “regolamentato” da due vertici tenutosi nel 1957 e nel 1962 tra i clan siciliani e americani e sottovalutato dagli inquirenti del tempo. La mafia, ormai è evidente per Boris Giuliano, non è più quella dei giustizieri-vendicatori alla Beati Paoli, ma l’espressione di più anime, da quella finanziaria a quella militare, pronte a qualsiasi strategia per consolidare i propri affari. Ma pronta anche alla propria ristrutturazione. Il periodo che va dal 1963 al 1969 nasce infatti una struttura di coordinamento, la commissione provinciale, per quanto indebolita dalla prima guerra di mafia, quella diventata celebre con la strage di via Lazio del 10 dicembre 1969, ed emergono nuovi personaggi, come Stefano Bontade della contrada Villagrazie-Falsomiele. O come Michele Greco, il “papa” di cosa nostra. Ma ci sono anche i “viddani” di Corleone, tra cui Luciano Leggio (detto Liggio), Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.
Proprio la strage di via Lazio – un assalto comandato da Provenzano a un cantiere edile in cui a terra restano cinque persone e che aveva lo scopo di condizionare la corsa agli appalti – diviene la ripartenza delle indagini di Contrada e Giuliano attraverso un sopravvissuto, Calogero Bagarella, fratello di Leoluca e cognato di Riina. Qui si innesta l’asse operativo con il nucleo investigativo dei carabinieri, guidato dal colonnello Giuseppe Russo, che consente di risale all’organigramma dei corleonesi.
Ma c’è anche l’inaugurazione di una pratica: i “delitti eccellenti”. Il primo avviene il 5 maggio 1971 quando viene assassinato in Cipressi, a poca distanza dal cimitero dei Cappuccini, il procuratore capo della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione. Con lui perde la vita il suo autista, l’appuntato degli agenti di custodia (la vecchia dicitura per la polizia penitenziaria) Antonino Lorusso. È la prima volta dal 1893 che la mafia punta a uomini delle istituzioni. Ne seguono tre vertici a Palermo a cui partecipano anche funzionari del Viminale inviati da Roma e si decide che a seguire le indagini saranno Giuliano, Contrada e il capitano Russo. E nei documenti che costituiscono l’esito delle loro indagini, si segna ancora una volta un anticipo di anni sui tempi correnti e sull’introduzione dell’articolo 416 bis del codice penale. Per la prima volta si parla infatti di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Ma sarà davvero troppo presto quando, il 30 marzo 1973, si presenta in questura chiedendo di Contrada un giovane che risponde al nome di Leonardo Vitale, pentito di mafia ante litteram che diventerà l'”uomo di vetro”. Iniziando a parlare di un omicidio, fornisce agli investigatori elementi per avviare una colossale indagine anticipando di fatto le rivelazioni che Tommaso Buscetta farà nel decennio successivo a Giovanni Falcone. Ma Vitale, che parla di una conversione religiosa i cui eccessi si ritrovano spesso nei suoi scritti, viene fatto passare uno squilibrato.
Sì, non sta bene, dice il perito che deve stabilire qual è lo stato mentale dell’uomo, ma non è soggetto ad allucinazioni e non altera la realtà. Questo tuttavia non gli risparmia otto elettroshock che lo bruciano sempre più profondamente. Internato nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, ne esce nel giugno 1984 e il 2 dicembre lo uccideranno in un agguato. Un anno e mezzo dopo, il 12 maggio 1986, l’ufficio istruzione del tribunale di Palermo emette per questo delitto condanne contro vertici e gregari del clan dei corleonesi.
L’inizio degli anni Settanta porta poi a registrare un altro fenomeno, quello dei sequestri di persona, il più celebre dei quali vede come ostaggio il suocero di Nino Salvo, Luigi Corleo. E quel decennio porta a un’ulteriore ristrutturazione di cosa nostra: la commissione provinciale, minata con la prima guerra di mafia, viene riattivata e diventa regionale. E inizia anche una “proto strategia della tensione” di cosa nostra, che non si deve più ascrivere solo al periodo dei delitti del 1992 di Falcone e Borsellino e delle stragi 1993.
Quella strategia deve essere anticipata almeno al 23 dicembre 1984, quando a San Benedetto Val di Sambro, tra Firenze e Bologna, esplode un ordigno su un treno che ha appena imboccato la galleria della Direttissima lunga 18 chilometri. Per quella vicenda, tra gli altri, viene condannato in via definitiva il cassiere della mafia, Pippo Calò. E recentissime evoluzioni investigative, diventate pubbliche il 27 aprile 2011, hanno visto da Napoli la notifica di un’ordinanza di custodia cautelare a Totò Riina, considerato il mandante della strage di Natale. Voleva disincentivare – hanno ricostruito gli inquirenti partenopei – le indagini di Falcone e Borsellino che avrebbero portato al maxi processo di Palermo e per farlo fu usato un esplosivo particolare, il Semtex H, usato anche nella successiva stagione stragista, prodotto durante la guerra fredda in Cecoslovacchia e su cui vigeva dal 1981 il divieto di esportazione al di fuori dei Paesi del patto di Varsavia.
Ma a leggere la storia di Boris Giuliano, si può a ragione parlare di quella proto strategia bombarola che nel 1975 fa minare tralicci, centrali elettriche, linee telefoniche, come se a farlo fossero criminali politici e non mafiosi. Racconta Daniele Billitteri nel libro “Boris Giuliano. La squadra dei giusti”:
«Ci vorranno mesi di indagine per capire che gli attentati vengono da cosa nostra, che i mafiosi hanno trovato manovalanza specializzata negli ambienti del terrorismo di destra, ma che a governare l’azione e a fornire esplosivi e bombe già confezionate c’è, secondo quanto poi raccontarono i pentiti, i “uomo d’onore” doc come Antonio Madonia».
Con questa affermazione Billetteri conferma quanto già emerse (ma poi non vennero confermato) già durante le indagini per l’omicidio di Piersanti Mattarella, freddato in un agguato a Palermo il 6 gennaio 1980, e ancora nel corso dell’istruttoria per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 arrivando fino al novembre 2010, con la conclusione del processo per la strage di piazza della Loggia, avvenuto a Brescia il 28 maggio 1974 e un caleidoscopio sull’estremismo nero italiano e sui contatti confermati tra neofascismo, mafia e ambienti massonici siciliani.
Torniamo però al 26 aprile 1979, l'”inizio della fine” identificato da Paolo Borsellino. È il periodo in cui Giuliano sta cercando di individuare le raffinerie della droga, uno degli aspetti di un patto tra la mafia siciliana e quella di New York. A questa indagine ci sta lavorando facendo asse con investigatori americani della Dea e il percorso del denaro è quello che – ritiene il poliziotto – va seguito per arrivare ai vertici dell’organizzazione.
Nella primavera del 1979 Giuliano è ancora capo della squadra mobile per un caso. Un po’ di tempo prima era finito a conflitto a fuoco con una coppia di rapinatori di banca. Lui non sparò un proiettile e riuscì a raggiungere uno dei banditi semplicemente inseguendolo correndo (l’altro morì nello scontro con l’agente che accompagnava Giuliano). L’azione venne segnalata al ministro dell’interno per il conferimento di un encomio al vicequestore aggiunto. Encomio tuttavia negato. Giuliano non se la prese a male per questo e nemmeno per lo scatto di carriera che avrebbe significato arrivare al grado di vicequestore primo dirigente. Grado che gli avrebbe impedito di rimanere alla guida della squadra mobile.
Ma tutto ciò non accadde e Giuliano continua il suo lavoro, che comprende le indagini per l’omicidio di un giornalista noto e rispettato del “Giornale di Sicilia”, Mario Francese, ucciso nella zona della Statua della Libertà il 26 gennaio 1975. Francese, unico cronista a intervistare Ninetta Bagarella, sorella di Leoluca e moglie di Totò Riina, poteva essere considerato un altro delitto eccellente. E ne seguirà un altro, il 9 marzo, quando viene ammazzato Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana.
In questi due casi, come accade da diversi a quella parte, Giuliano collabora con Contrada, nel frattempo passato alla Criminalpol, e diranno le fonti d’accusa contro il funzionario di polizia – condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione di tipo mafioso – che tra i due colleghi e amici ormai i rapporti fossero tesi e che il primo non si fidasse più del secondo. Contrada smentirà nel corso dei processi che l’hanno visto imputato e, rendendo dichiarazioni spontanee, affermerà: gli rivolgano qualsiasi accusa, ma non dicano che tra loro non ci fosse più l’intesa degli anni Sessanta e Settanta perché, nonostante l’onta delle accuse, Contrada ha continuato a considerarsi un fedele di Boris Giuliano, prima e dopo il delitto.
Il 26 aprile 1979, si diceva rifacendo un salto indietro, è il giorno in cui accade un fatto: viene presa d’assalto la Cassa di Risparmio di via Mariano Stabile e muore un metronotte, Alfonso Sgroi, che si era trovato davanti i banditi. E a quel punto, dal punto di vista investigativo, è un’accelerazione continua verso quella che sembra una svolta nell’inchiesta che vuole arrivare a inchiodare i vertici di cosa nostra sui due lati dell’Oceano Atlantico. Due giorni dopo, per prima cosa, viene scoperto il “covo” di corso dei Mille 196. Sotto l’apparente rispettabilità di un’officina che si occupa di tappezzeria per auto, si cela invece altro e quando gli agenti di polizia intervengono, sono tre gli arresti eccellenti: Giovannello Greco, Rosario Spitalieri e Giovanni Mondello. Non passano altre ventiquattr’ore che giunge la prima intimidazione a Giuliano.
Il 29 aprile, infatti, qualcuno chiama il 113 e a rispondere è la guardia di pubblica sicurezza Rodolfo Adamuccio, fresco d’inizio turno che quel giorno va dalle 19 all’una del mattino. Sta lavorando da una quindicina di minuti quando all’altro capo della cornetta sente un uomo che dalla voce avrà una quarantina d’anni.
«Giuliano morirà», si limita a dire. Poi riattacca.
La guardia Adamuccio, prima di smontare, compila la sua relazione di servizio riportando l’episodio e inviandola al capo della squadra mobile. Il quale, se ne rimane impressionato, non lo dà a vedere e minimizza. Anche perché Giuliano e il suo gruppo hanno altro da fare. Come finire di redarre la documentazione per denunciare il gruppo criminale che comprende, oltre agli arrestati del 28 aprile, anche Pietro Marchese, uomo d’onore della famiglia di Ciaculli. E come trovare altre prove a loro carico. Prove che via via verranno trovate.
Il 2 maggio, per esempio, viene rinvenuto un arsenale e una settimana più tardi ce n’è abbastanza per rimettere le mani su Giovanni Mondello, per quanto rimarrà ospite nelle patrie galere per pochi giorni, fino al 16 maggio. Ma per un sospetto mafioso che viene scarcerato, ce n’è un altro che entra, come accade il 19 maggio quando le manette vengono di nuovo strette intorno ai polsi di Pietro Marchese, riconosciuto come uno dei componenti del gruppo di fuoco che ha colpito il 26 aprile in banca uccidendo la guardia giurata Sgroi.
Giuliano lavora senza sosta a questo caso e il 28 maggio invia ai magistrati un verbale in cui si attesta il riconoscimento di Marchese, per quanto ancora non basti. Dato che il testimone tentenna e che per un momento si teme che non voglia più confermare quanto ha già dichiarato agli uomini della squadra mobile, il vicequestore aggiunto si dà da fare per rintracciare un’altra persona che aveva assistito a quell’assalto conclusosi con il delitto Sgroi. È una donna nata a Napoli nel 1935 e residente a Londra, Silvia Duchenne, che vivendo lontana dalla Sicilia non si piega alla consuetudine dell’omertà e che dunque ha pochi problemi a confermare la presenza di Marchese in quell’occasione. Conferma che arriverà con i crismi dell’ufficialità il 16 giugno, ma che provocherà nuove minacce a un altro componente della squadra mobile, il commissario Cardella.
Accade poi non così di rado che si registrino fatti all’apparenza isolati, senza alcun apparente contatto con storie più vicine ai protagonisti di una storia che si sta raccontando. Se già era accaduto con il mancato encomio a Giuliano, il 20 giugno 1979, da via Aquileia, scompare un’automobile, una Fiat 128 intestata a Giuseppe D’Agostino, commerciante e proprietario di un piccolo mobilificio. Sempre quel giorno scompaiono anche delle targhe: il furto avviene a poca distanza da lì, in via Pacinotti, e vengono asportate da una Renault.
L’auto, appena dopo, viene avvistata in via Matteo Silvaggio da una volante che avvisa il 113 e dalla centrale operativa viene chiamata la moglie del proprietario, Margherita Inzerillo. La donna, riattaccato il telefono, si precipita, ma quando arriva non c’è più traccia dei veicolo. Al momento nessuno può sapere che quella vettura e quelle targhe, combinate insieme, serviranno a condurre l’assassino di Boris Giuliano al bar Lux di via De Blasi e poi a farlo fuggire, atteso da un complice al volante.
Quasi fosse uno di quei film poliziotteschi degli anni Settanta per cui la polizia arresta e la legge scarcera, nel frattempo torna in libertà anche Girolamo Mondello. Ma se anche tra Giuliano e i suoi uomini fosse serpeggiata quella frustrazione ritratta nel film di Enzo Castellari, i componenti della squadra mobile non si danno per vinti e il 7 luglio mettono a segno un bel colpo. In via Pecori Giraldi scoprono infatti un covo di uomini d’onore e arrestano Antonino Marchese, appartenente al clan di corso dei Mille, e Antonino Gioè, futuro pentito dopo aver partecipato all’attentato di Capaci dove viene ucciso il 19 maggio 1992 Giovanni Falcone, sequestrando anche un bel po’ di armi. Due giorni più tardi sarà identificato Leoluca Bagarella e salteranno fuori le prescrizioni mediche che riportano il nome di Giacomo Bentinvenga.
Ancora qualche giorno e il 14 luglio viene effettuato un controllo di polizia in una discoteca. È “Il Castello” di Francesco Di Carlo, futuro accusatore di Marcello Dell’Utri, e deve essere un altro colpo non da poco per la mafia, se il 17 luglio giungono nuove minacce. Questa volta sono dirette al professor Stassi, direttore dell’istituto di medicina legale, dove vengono custodite le armi sequestrate ai boss in attesa che vengano sottoposte a perizia.
Malgrado le pressioni sempre più forti, Giuliano continua le sue indagini, convinto di essere nel giusto. Se n’era convinto ulteriormente qualche settimana prima di questi fatti, quando il 19 giugno 1975 all’aeroporto di Punta Raisi vengono rinvenute su un nastro trasportatore due valige senza alcuna generalità associata che contengono quasi 500 mila dollari. Per la squadra mobile, nel frattempo avvertita del ritrovamento, non c’è dubbio: quel denaro fa parte dei proventi del narcotraffico internazionale e non deve essere un caso che il giorno successivo a New York la polizia americana sequestra un grosso quantitativo di droga.
Questo è un pezzo dell’operazione che appena dopo andrà sotto il nome di “Pizza Connection”, indagine della Dea e dell’Fbi che ufficialmente parte il 12 luglio 1979 e che nel 1987 porterà a pesanti condanne per alcuni boss, come Gaetano Badalamenti, a cui vengono inflitti 45 anni di carcere. Con questa inchiesta, ormai, diviene impossibile negare che è denaro ottenuto – si parla di un giro d’affari di 1 miliardo e 600 milioni di di dollari – vendendo droga in giro del mondo e che passa per i paradisi fiscali approdando in conti correnti svizzeri, da cui i quattrini ripartono per nuove attività illegali.
Uno così, uno come Giuliano, però non può continuare a girare indisturbato. Occorre intervenire, occorre “sdraiarlo” perché, se lasciato fare, potrebbe produrre danni ingenti per cosa nostra. Così, nonostante la maggior parte delle minacce fossero arrivate ad altri (contro il vicequestore aggiunto c’è la telefonata minatoria del 28 aprile), il 21 luglio 1979 a essere ucciso sarà lui, un colpo da novanta che questa volta mette a segno cosa nostra. E tre giorni più tardi, alle 10 del mattino, giunge una telefonata al centralino della questura che viene trasferita negli uffici della Criminalpol. A rispondere è il maresciallo Urso.
«Ha carta e penna?» chiede lo sconosciuto.
«Sì», risponde il poliziotto.
«Si tratta di Giuliano. Ignazio Pullarà del rione Guadagna, il padre è ex capo zona dell’Amnu della Guadagna ed i fratelli Vernengo di Ciaculli».
«Ok. Altri dettagli?»
«Basta, la saluto».
«Ok».
Questo sarà un elemento che aiuterà a indirizzare le indagini, ma va detto che la morte di Boris Giuliano sembra paralizzare la squadra mobile e anche gli altri vertici della questura palermitana, compreso lo stesso Bruno Contrada, che consegnerà solo il 7 febbraio 1981 il primo vero rapporto sulla morte del vicequestore, firmato anche da Salvatore Russo, il nuovo comandante del reparto operativo dei carabinieri di Palermo. Ma per vedere scritto nero su bianco il nome dei mandanti – i Marchese, i Greco, Provenzano e Riina – occorre attendere quasi otto anni e mezzo con la sentenza del maxi processo, pronunciata dopo 35 giorni di camera di consiglio il 16 dicembre 1987: 475 sono gli imputati, 438 i capi di imputazione per reato che comprendono anche 120 omicidi. Per vedere infine condannato Leoluca Bagarella, che ha materialmente premuto il grilletto, la sentenza arriverà solo nel 1995, sedici anni dopo il delitto.
Ad aver determinato il destino di Boris Giuliano però non c’è solo la pista del narcotraffico internazionale. Diventato capo della squadra mobile dopo aver preso il posto di Bruno Contrada, si era gettato a capofitto anche in un’altra indagine, quella sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. È stata un’indagine in cui Giuliano investì molte energie, tanto da destare in qualcuno il pensiero di averla presa sul personale. Di fatto, però, la sparizione del cronista investe profondamente i vertici delle forze di polizia siciliane, compresi i carabinieri di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
È un rebus la sorte di De Mauro. Con un passato nella Repubblica di Salò ed entrato a far parte della X Mas di Junio Valerio Borghese (in suo onore il giornalista battezzerà la figlia dandole il nome di Junia), rimane in contatto con il vecchio comandante, per quanto il suo percorso professionale lo porta, dopo un periodo al “Giorno”, quotidiano dell’Eni, a lavorare per un giornale tradizionalmente considerato di sinistra, “L’Ora” di Palermo.
E De Mauro si mette a indagare su Enrico Mattei, il presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi che muore sul suo aereo nel 1962 mentre dalla Sicilia sta tornando a Milano. Quello che per lungo tempo si tenterà di accreditare come un incidente, avviene nei cieli di Bascapè, provincia di Pavia, ma appurerà negli anni Novanta l’allora sostituto procuratore della Repubblica di Pavia Vincenzo Calia che è stato un attentato: una bomba che esplode a bordo quando manca poco all’atterraggio.
De Mauro su Mattei ci lavora su richiesta del regista Francesco Rosi, che vuole realizzare un film sulla vicenda. Con quello che sta scoprendo, dice De Mauro alla figlia, gli dovranno conferire una «laurea in giornalismo» e finalmente può raccontare «con chi Mattei aveva trascorso le ultime tre ore della sua vita». Ciò che si sa è che Mattei, appena prima di venire ucciso, stava seguendo la politica siciliana in quella che viene conosciuta come l’operazione Milazzo. Che, dalla ricostruzione del giornalista, sembrerebbe aver favorito l’insediamento di un potente “governatorato” regionale in capo ai cugini Salvo, Nino e Ignazio, calati nell’entourage locale più stretto intorno a Giulio Andreotti fin dai tempi del potenziamento della corrente Primavera attraverso l’appoggio di uomini della mafia siciliana.
Inquietante poi una coincidenza temporale: Mauro De Mauro scompare quanto il suo ex comandante, il principe Borghese, sta organizzando il tentato golpe dell’8 dicembre 1970 che prende il suo nome. Un tentato golpe per cui si chiede l’appoggio di cosa nostra che tuttavia rifiuta – per volontà sia di Gaetano Badalamenti, in base alle parole di Tommasso Buscetta, che di Antonino Calderone – un coinvolgimento diretto dicendosi disinteressata a uno stravolgimento militare dello status quo e ricordando la persecuzione fascista subita nel corso del Ventennio. Detto questo, tuttavia, i boss siciliani ripiegano per un non schieramento in tema golpe: non lo avrebbero favorito, ma nemmeno l’avrebbero contrastato.
A fronte di un’articolata attività giornalistica di Mauro De Mauro, diverse furono le piste seguite da polizia e carabinieri. Per i militari di Dalla Chiesa, la direzione da seguire riguardava le inchieste sul traffico della droga portate avanti dal giornalista mentre per Giuliano e i suoi uomini più probabile che la sua sorte fosse legata al lavoro che stava conducendo per conto di Rosi su Mattei. Chiave, dal punto di vista del capo della squadra mobile, sarebbe stata la figura di Vito Guarrasi, uomo che avrebbe avuto un ruolo per nulla chiaro nella sottoscrizione dell’armistizio di Cassabile, quello firmato con gli Alleati l’8 settembre 1943. E proprio Guarrasi, sentito da Giuliano a proposito della sorte di De Mauro, avrebbe indirizzato il poliziotto verso Leoluca Bagarella e i suoi traffici scoperti con l’assalto alla banca in cui muore il metronotte Sgroi e si arriva al covo di via Pecori Giraldi.
Proprio qui si innesta un altro collegamento, per quanto negato almeno all’inizio negato dalla questura di Palermo. Occorre fare però una breve digressione. Dieci giorni prima del delitto Giuliano, l’11 luglio 1979, a Milano c’era stato un altro omicidio. A essere assassinato era stato Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana. «Follow the money», avrebbe detto qualche anno più tardi Giovanni Falcone e sia Ambrosoli che Giuliano lo stavano facendo.
Giuliano in particolare lo stava facendo da quando, nell’indagine partita il 26 aprile 1979, arriva a un certo punto a un libretto di risparmio su cui sono state depositate centinaia di milioni di lire. L’intestazione del libretto è falsa e si scoprirà che apparteneva a Michele Sindona. Su cui, e qui è giunta la smentita da Palermo, avrebbe cercato di imbastire un’indagine apposita. Per questo, una manciata di settimane prima dell’omicidio di entrambi, Giuliano incontrò Ambrosoli a Milano.
Si muoveva a tutto tondo, il vicequestore aggiunto. Toglierlo di mezzo – stabiliranno le indagine portate avanti dalla squadra mobile di Palermo e dal nucleo operativo dei carabinieri – aveva due scopi: da un lato eliminare un valente investigatore ormai troppo pericoloso per l’organizzazione mafiosa e dall’altro provocare uno “sbandamento” nelle forze di polizia, danneggiando le attività d’indagine in corso.
Stesso discorso anche per il capitano Emanuele Basile, ucciso a Monreale il 4 maggio 1980. Uno degli esecutori materiali di questo è Giuseppe Madonia, una cinquantina d’anni, ritenuto il capo di cosa nostra nella provincia di Caltanissetta. Dicono i rapporti presentati a Borsellino: «Gli omicidi dei due investigatori sono indissolubilmente legati, sono anelli della stessa catena di sangue». Dopo il delitto Giuliano, inizia infatti il vero asse tra polizia e carabinieri con un ruolo preminente del capitano dell’Arma. E nel 1981 – l’anno dei 151 omicidi – un rapporto congiunto parlerà di nuovo di «atti di terrorismo mafioso mutuati dai sistemi e metodi dei terroristi dell’eversione politica».
Basile aveva poi ottenuto risultati importanti: Bagarella era stato raggiunto da un mandato di cattura emesso dal giudice istruttore di Palermo il 19 ottobre 1978 per il duplice omicidio del tenente colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo. Inoltre Giuseppe Modesto, imputato per il delitto Russo, è proprietario di una villa a Piraineto, comune di Villagrazia di Carini, le cui chiavi – risulterà da un controllo dei carabinieri dell’11 dicembre 1979 – sono in possesso di Bagarella. Basile, per procedere con le indagini, si avvale delle ultime risultanze investigative di Giuliano (soprattutto sul covo di via Pecori Giraldi e sulla discoteca “Il Castello”) per procedere con indagini proprie ad Altofonte, compreso nel territorio della compagnia di Monreale che comanda. Le denunce conseguenti porteranno a individuare i presunti responsabili dell’attentato al brigadiere Giuseppe Sovarino.
Ma uno come il capitale Emanuele Basile non può sopravvivere in un contesto del genere, è un altro da “sdraiare”. Così Il 4 maggio 1980, verso l’1,40, viene ucciso da colpi calibro 38. Anche lui, come Giuliano, viene colpito alle spalle e il commando è composto da due uomini, fuggiti a bordo di una A112 beige su cui c’era un terzo complice. Lo attendevano nei pressi della caserma presso cui l’ufficiale alloggiava e – stabiliranno le indagini – la matrice è la mafia di Altofonte e di Corleone che uccide l’ufficiale per i risultati investigativi raggiunti in precedenza e in particolare per quelli che seguirono il luglio 1979.
Giuliano e Basile però non sono gli unici a venire uccisi, tra gli uomini del nucleo investigativo dei carabinieri di Palermo. Il 21 agosto 1977 era accaduto anche al capitano Giuseppe Russo mentre passeggiava in contrada Ficuzza insieme a un amico, Filippo Costa, un insegnante che farà la stessa fine dell’ufficiale. Russo, conosciuto con il diminutivo di Ninì, aveva collaborato con Boris Giuliano. Tra i due non era sempre filato tutto liscio. Giuliano amava poco gli informatori e per lui era importante attenersi ai regolamenti. Su un fronte operativo opposto l’ufficiale dell’Arma, che ricorreva spesso alle “gole profonde” all’interno dell’organizzazione mafiosa e che si era formato a una “scuola” rigorosa, ma spregiudicata, quella del generale Dalla Chiesa.
Sarà sostituito per presunte ragioni di salute qualche mese prima del suo delitto dal maggiore Antonio Subranni (anche lui lavorerà con Giuliano in modo meno animoso rispetto a quanto accaduto con Russo) mentre Basile era già a capo della compagnia di Monreale. Russo è dunque un’altra vittima dei corleonesi, un altro investigatore scomodo da far uscire di scena. Ma la scia di sangue non si arresta né con lui né con Basile. Dopo di loro la volta del successore di Basile, il capitano Mario D’Aleo, ucciso il 13 giugno 1983 a Palermo, in via Cristoforo Scobar, insieme all’appuntato Giuseppe Bommarito e al carabiniere Pietro Morici. D’Aleo aveva 29 anni e stava indagando sui traffici mafiosi che si svolgevano tra San Giuseppe Jato, Altofonte e Monreale. Era stato accusato anche di eccesso investigativo dalla famiglia Brusca per l’arresto dell’allora giovane Giovanni.
Ma intanto, tra i militari del nucleo investigativo, era stato assassinato anche il maresciallo Vito Jevolella (10 settembre 1981) che indagava sulla cosca palermitana degli Spadaro. E un altro che proviene sempre dallo stesso nucleo sarà ucciso il 4 aprile 1992. È il maresciallo Giuliano Guazzelli e ha lasciato da tempo Palermo. Ha 59 anni e, nonostante potrebbe optare per il pensionamento, lavora ormai da tempo al nucleo di polizia giudiziaria di Agrigento e segue, malgrado sia stato ripetutamente minacciato, indagini che riguardano irregolarità bancarie contestate a potenti della città e si orienta infine verso la commistione mafia, politica e affari.
Per quanto riguarda la squadra mobile di Palermo, Giuliano viene sostituito da un piduista, Giuseppe Impallomeni (tessera 2213), che farà naufragare il dinamismo investigativo degli uomini che fino al luglio 1979 avevano affiancato il poliziotto assassinato da cosa nostra. C’è chi, esasperato, chiede di essere trasferito ad altri uffici e chi, invece, fa domanda proprio per lasciare Palermo e la Sicilia. Ma arriveranno altri poliziotti a riprendere quella lotta costata la vita a Boris Giuliano.
Tra loro il commissario Beppe Montana, 34 anni, catanese d’origine, che fa parte della neonata squadra catturandi e che viene ucciso il 29 luglio 1985. E Antonino Cassarà, per tutti Ninni, che aveva indagato sui cugini Salvo e che seguiva gli sviluppi delle rivelazioni di Buscetta. Sviluppi che porteranno, attraverso i Salvo, ai rapporti tra mafia e politica e in particolare con l’entourage di Giulio Andreotti. Una ricostruzione così solida che le risultanze di Cassarà saranno citate anche nelle sentenze per il delitto di Mino Pecorelli, il direttore del settimanale Op assassinato a Roma il 20 marzo 1979. Cassarà, che sta alla mobile, viene ucciso il 7 agosto dello stesso anno insieme all’uomo che gli fa da scorta, Roberto Antiochia.
Leggo solo ora lo scritto su Boris Giuliano : notevole “affresco”di un periodo oscuro e deprimente per questo paese. Ben vengano i ricordi di uomini come lui Ambrosoli , Cassarà e tanti altri .Purtroppo chi aveva e ha in mano il vero potere non è fatto della stessa pasta.