Quando Gargoyle Books mi ha chiesto se volessi scrivere la prefazione del libro Mary Terror di Robert McCammon, in libreria dal prossimo 29 aprile, in pochi giorni ho divorato la traduzione italiana. McCammon è un autore di cui avevo già letto altri romanzi e che mi aveva entusiasmato. Ma mai come in questo romanzo. Che sostituisce ambientazioni squisitamente horror con uno scenario che chiama in causa anni Sessanta e Settanta statunitensi, contestazioni e terrorismo. Ecco di seguito le considerazioni scritte a premessa di un libro davvero straordinario.
La prima volta che questo romanzo venne pubblicato in Italia era il gennaio 1991. Arrivato due anni dopo la versione in lingua originale, a darlo alle stampe era stata la casa editrice Interno Giallo e oggi quell’edizione, non più presente nel circuito librario, rientra a pieno titolo della categoria del collezionismo. Fa bene dunque Gargoyle Books a inserire Mary Terror nel proprio catalogo. E lo fa per una serie di ragioni.
Innanzitutto perché dimostra come sia possibile scavalcare la letteratura di genere. O, per la precisione, dimostra quanto la letteratura di genere possa essere uno strumento più che adatto a raccontare la contemporaneità. Tanto che, a vent’anni circa dall’uscita di questo romanzo, esso contiene ancora tutti gli strumenti per guardarsi intorno e interpretare gli accadimenti di oggi.
Partiamo da una considerazione, una specie di bugiardino degli effetti collaterali: se un racconto deve essere una rasoiata, sappiate che questo romanzo lo è in pieno. Provocherà dolore fisico leggere le pagine che seguono. Susciterà paura e ansia. Metterà alla prova la resistenza del lettore, gli farà accusare fatica fisica, ma soprattutto lo farà riflettere su ciò che è stato e ciò che è oggi. Perché Mary Terror è prima di tutto un romanzo politico dai tratti impietosi che non risparmia nessuno dei suoi personaggi. È il ritratto dell’America post-contestazione, di ciò che è rimasto una volta conclusisi gli anni in cui si lottava per una rivoluzione che cambiasse il pianeta, dal singolo essere umano alla più tecnologizzata delle società occidentali. È un romanzo sugli effetti dell’estremismo come unica risposta ritenuta possibile.
Proseguiamo con qualche elemento interpretativo vicino al lettore, almeno dal punto di vista geografico. In Italia il 1978 e il 1979 sono gli anni in cui prende avvio un fenomeno ricordato con il nome di “riflusso”. In un recente libro scritto dal giornalista trentino Paolo Morando, si legge di come in quel biennio si facciano strada i dancing days, durante i quali si cade sotto la stanchezza di due lustri di lotte politiche scivolate in parte nel terrorismo rosso e nero. Lo stragismo, le P38 in mano ai ragazzini, ma anche le riunioni pacifiche, i dibattiti, la dottrina non inquinata dalla violenza politica vengono soppiantati da qualcos’altro.
Come la voglia di ballare, sulla scia di un fenomeno che giunge dagli Stati Uniti: quello del “travoltismo”, completi bianchi e colletti a punta indossati da autoctoni emuli di Tony Manero (interpretato da John Travolta) e lanciati sulle piste dei dancing dove la disco music inizia a cadenzare nuove aspirazioni (come la fama sul piccolo schermo, ma in tanti si accontentato anche di quella raccimolata nelle balere di provincia) e nuovi desideri. Tra questi, l’amore romantico delle magliette fini sulle spiagge estive, la famiglia tradizionale, la ricerca (da parte di entrambi i sessi) di una femminilità che sconfessa il femminismo e ripropone l’arma della seduzione scoprendo la carne. O, per contro, di una verginità preziosa e conflittuale da tempo delle mele.
È la riscossa – in parte forzosa – del privato sul politico. E non è un privato che può anche coincidere con il politico, così come lo raccontava a fine anni Cinquanta un maestro della letteratura e della fiction italiana, Giuseppe D’Agata, nell’epica della Resistenza rievocata con il romanzo L’esercito di Scipione. È un privato che, puzzando un po’ di piduismo, il Corriere della Sera lancia in prima pagina quando pubblica la lettera del “cinquantenne innamorato”: diviso tra la moglie – compagna di una vita verso la quale la passione è morta, ma vincente sul piano dei valori cristiano-sociali – e l’amante – una “ragazza di trentacinque anni” che riaccende i sensi, ma infrange il dogma dell’indissolubilità dell’amore coniugale – lo scrivente dichiara di scegliere la via del suicidio. Molti anni più tardi si scoprirà che quella lettera era falsa, nessun “cinquantenne innamorato” aveva scritto alla redazione di via Solferino. Nelle versioni più morbide della storia, la missiva sarebbe esistita, ma era impubblicabile a causa di grammatica e ortografia zoppicanti e andava dunque riscritta. C’è anche chi lascia intendere che il cinquantenne altri non sarebbe stato che un giornalista del Corriere colto dalla brama di un outing a metà.
Tuttavia è marginale in questo discorso la “vera verità” dietro alla lettera. Ciò che più conta sono gli effetti. Vuoi per coincidenza o vuoi per novità strategiche quanto meno caldeggiate dalla nuova dirigenza – rappresentata da Bruno Tassan Din, Umberto Ortolani e dunque Licio Gelli, cioè l’élite della loggia P2 –, la dottrina della novella Rizzoli passa attraverso Scenario, un documento sulle linee di comunicazione da adottare sul finire degli anni Settanta, a seguito del quale il vincitore del dibattito pubblico è dunque il privato senza alcuna connotazione politica. Che il riflusso abbia inizio.
Fin qui, per sommi capi, ciò che accade da questa parte dell’oceano Atlantico. Dall’altra, invece, gli anni Ottanta si aprono con il trionfo repubblicano di Ronald Reagan, insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio 1981 dopo la sconfitta del 1976 contro Jimmy Carter. La sua campagna elettorale è stata scandita dalla cosiddetta crisi degli ostaggi in Iran e il “Grande Satana”, come l’ayatollah Khomeyni etichettò gli States nel periodo della sua rivoluzione culminata con la fine dell’antica monarchia persiana, doveva fare i conti con le conseguenze della stagflazione del decennio precedente: disoccupazione, prezzi in continuo rialzo e scioperi selvaggi (si pensi a quello celebre dei controllori di volo della Professional Air Traffic Controllers Organization, sostituiti dai militari per evitare che le agitazioni dei lavoratori avessero conseguenze sugli spostamenti aerei).
Il mondo cambiava di nuovo, in quegli anni. O forse tornava a essere simile a quello di prima. Con la morte di Bob Marley, avvenuta l’11 maggio 1981, sembrava infatti chiudersi non solo metaforicamente un’era: le contestazioni tramontavano, l’intervento armato all’estero non era più un tabù da nascondere con operazioni di intelligence (come avvenuto in Cile o in Medio Oriente) e l’edonismo, alimentato da forme di ricchezza di natura speculativo-finanziaria e sempre meno produttive, partoriva gli young urban professional, gli yuppie. I quali giungevano dalle più blasonate università statunitensi, come Princeton, Harvard e Yale, e la loro mecca erano le piazze affaristiche della Grande Mela. Trascorrevano le loro nottate allo Studio 54 di Manhattan (discoteca di tendenza che troverà suoi omologhi italiani per esempio nel Macondo di Mauro Rostagno, per quanto con maggiori connotazioni radical-chic rispetto a quanto avveniva in altre metropoli occidentali) e ballavano sulle note di Prince, Madonna e dei Duran Duran. Infine rientravano ormai sfatti da cocktail e cocaina in appartamenti monocromatici, dove l’acciaio era diventato complemento d’arredo e le novità in fatto di elettrodomestici uno status symbol.
In quegli anni non c’era più posto per gli hippie. Non c’era più posto nemmeno per il rock progressivo, per i viaggi lisergici e per il sesso come rivoluzionario strumento che tendesse alla libertà sociale invece che alle catene familiari o al mercimonio. I figli di Woodstock e delle contestazioni del Vietnam, vinte alcune battaglie (come l’abolizione della leva obbligatoria), tornavano a essere nicchia, a essere di nuovo underground, che pur darà vita a fenomeni culturali interessanti, come il grunge di Seattle, di cui i Nirvana del compianto Kurt Cobain sono solo l’esempio più noto e mainstream.
La non violenza di quella generazione viene assassinata con il suo simbolo, John Lennon, ucciso con quattro colpi di pistola la sera dell’8 dicembre 1980 dalla guardia giurata Mark Chapman mentre si trova di fronte al Dakota Building di New York. Non si rialza nemmeno di fronte all’intervento militare in Libano e alla reazione della Gran Bretagna nelle isole Falkland. Mentre il pianeta danza sulle note di Michael Jackson, destinato a diventare un’icona della musica pop e a vedere gli zombie di Thriller nascere come funghi tanto nei sobborghi californiani quanto negli slum del subcontinente asiatico, al popolo degli elettori piace il pugno di ferro di Margaret Thatcher e assiste quasi indifferente alle agitazioni polacche di Solidarność e ai primi passi della perestrojka per poi gioire a fine decennio della caduta del Muro e del dissiparsi della Cortina di Ferro. Come se tutto questo non bastasse, quella generazione si rende conto che non occorre andare a Berlino per imbattersi in Christiane F. e nei ragazzi dell’omonimo zoo: basta guardarsi intorno per comprendere gli effetti di un altro fenomeno di massa, l’eroina.
Gli anni Ottanta sono il periodo del doppio volto, di una massa di persone che fugge dalle tensioni dei Seventies con la stessa determinazione con cui scantona i tossici agli angoli delle strade. E che compie un esorcismo forse inconsapevole quanto condiviso: la purificazione del denaro. Facile, fluttuante in mano ai broker, così potente da inebriare e allontanare da qualsiasi emozione che non sia l’ebbrezza di farne ancora di più. Questo doppio volto è stato raccontato con tratti tanto magistrali quanto neoveristici da Bret Easton Ellis in American Psyco. L’ossessione o, meglio, le ossessioni del suo protagonista, Patrick Bateman, sono un affresco dell’età reaganiana in cui l’allucinazione sconfina nel reale rendendo indistinguibili le due dimensioni. È la metafora di un altrettanto metaforico suicidio collettivo e chi l’ha scampata sembra ancora oggi vivere una sorta di convalescenza sine die.
Negli ultimi dieci anni, poi, abbiamo assistito ancora a picchi, in un senso e nell’altro, che hanno in qualche modo sconquassato il torpore di questa convalescenza. Il popolo di Seattle e i movimenti anti-globalizzazione per un po’ hanno lasciato sperare che non tutto fosse andato disperso, che giustizia, uguaglianza, primato dell’umanesimo sull’economia potessero di nuovo – e per davvero, questa volta – dare vita a una rete mondiale che proponesse e realizzasse un altro mondo. Ma il crescendo della repressione anti-G8, culminata con gli scontri di Göteborg e ancor più di Genova del 2001, ha sfaldato questo fronte e reso più isolate voci come quelle di Vandana Shiva, Noam Chomsky, Richard Stallman, Joseph E. Stiglitz o Naomi Klein. Il neoliberismo, d’altro canto, aveva già dato segnali di cedimenti strutturali alla fine degli anni Novanta, con l’esplosione delle bolle speculative della new economy, ma ancor più è rimasto sbugiardato e fiaccato dalla crisi divenuta palese nell’ottobre 2008 con il crollo del colosso Lehman Brothers. Fiaccato sì, ma non arreso, il neoliberismo, complici politiche statali di salvataggio accettabili – in barba a qualsiasi mano invisibile di smithiana memoria – quando si tratta di mantenere i privilegi di una classe dirigente criminale e predatoria.
In questo panorama si inquadra il prima, il dopo, ma anche il mentre della vicenda narrata in Mary Terror. Da un lato la violenza e la disperata follia di Mary e dall’altro la rassegnazione che non ha del tutto ucciso la voglia di riscatto di Laura sono le due facce del dopo-contestazione. Sono la deriva e l’adattamento, il rifiuto e il compromesso. Senza addentrarsi nella trama del romanzo, che sarà il lettore a scoprire, si possono sottolineare alcuni aspetti senza cadere nella trappola dello spoiler. Intanto McCammon non è nuovo a tematiche politiche e sociali. Come rilevato da Danilo Arona nella prefazione al libro La via oscura (Gargoyle Books, 2008), l’autore descrive «una regione – una America – dove il fanatismo religioso può uccidere per overdose e dove un arcaico conflitto “di fondazione” rovescia di 360° i parametri del Bene e del Male: è quell’America che teme e che odia tutto ciò che non capisce e che non è omologato a un’idea “superiore” di conformismo sociale. Le donne, i neri, i ragazzini “fuori dal coro”: tutti nemici in questa società arcaica e quasi tribale, in cui trovano spazio le idee tipiche del puritanesimo di origine gesuitica (ancora ben presenti in certa religiosità di base e di stampo “popolare”) per le quali la malattia entra nel corpo soltanto in seguito al “peccato commesso”, e dove il senso di colpa inglobato nell’anima subentra come eterno e lacerante dubbio».
Ecco, se nell’America di Mary Terror non entrano in gioco componenti religiose né paranormali e nemmeno i feroci non-morti che McCammon inserisce in Hanno sete (Gargoyle Books, 2008), le altre componenti rilevate da Arona tornano anche qui. Il conformismo sociale è un elemento potente del racconto contenuto nelle pagine che seguono. Un conformismo che, placati gli ardori giovanili, porta ad accettare una vita agiata perché la rivolta, già deceduta e sepolta, è semplicemente impossibile, che la si voglia tentare stando fuori o dentro il sistema. Laura si porrà la sostanziale domanda riassumibile nell’espressione «è tutto qui?» e l’unica risposta che saprà darsi è la ricerca della maternità come via di riscatto e come radar per individuare l’Amore Autentico. Si adatta al suo ruolo di moglie, di professionista affermata in un settore da donna – il giornalismo mondano –, di consumatrice armata di carta di credito, praticante laica del Verbo finanziario declinato da Merrill Lynch e analoghi. È la fine del Sogno Americano.
Un sogno che finisce anche per Mary, a cui è preclusa pure la via del compromesso, dell’accettazione. Il sogno di Mary finisce a ogni pulsione materna sciolta insieme ai suoi plasticosi e fittizzi bambolotti-figli, a ogni dissimulazione romantica di fronte l’uomo che l’amava e che lei continua ad amare per quanto intimorita dallo stereotipo del sentimento borghese da cui vuole fuggire, a ogni ricordo di una lotta disperata contro il capitale che ha sortito solo sciagure (personali e generazionali). Mary, come Laura, è alla ricerca del riscatto, ma ancor più di Laura paga il suo essere stata una contestatrice. Sconfitta, sfiorita, derisa e sola, non si accorge nemmeno che il demone del possesso l’ha invasa in modo irreparabile e resa forse ancora più schiava del suo alter ego omologato. Prende, Mary. Prende tutto ciò che le è possibile: vite, roba, sesso. E prende un neonato. Così il kidnapping, tema caro alla letteratura e al true crime d’oltreoceano, si trasforma in una potente allegoria politica della contemporaneità dove il riscatto non è il denaro, come in un qualsiasi caso di rapimento, ma la restituzione di un progetto di vita.
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