“A terra, ho detto, vai giù”

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Il testo riportato sotto è stato scritto da Emanuele Tamiazzo, un maresciallo dei carabinieri che il 15 gennaio 1991, undici giorni dopo l’eccidio del Pilastro, venne ferito gravemente dai banditi della Uno bianca. Emanuele racconta così ciò che accadde quella sera d’inverno a Pianoro, in provincia di Bologna, e le sue parole avrebbero dovuto essere lette durante l’ultima serata di BoNoir, lo scorso agosto. Così però non è stato e allora ecco di seguito il suo racconto.

Il 15 gennaio 1991, me lo ricordo, avevo ospiti per cena. Così, terminato il servizio, vado a casa, indosso abiti civili ed esco di nuovo per comprare qualche pizza. Nel frattempo, però, passo a salutare i gestori del distributore di benzina di Pianoro: erano degli amici e con quello che stava succedendo in quel periodo c’era poco da star tranquilli. Quattro chiacchiere, una battuta, qualche risata. Fino a quando arriva una Fiat Uno che si ferma dietro il gabbiotto del distributore, alle mie spalle. Nulla di strano, lì per lì, ma quando entra il nuovo arrivato, un tizio lungo, con occhiali che sembravano rayban e cappellino da pescatore, la situazione cambia drasticamente: è armato, urla a tutti i buttarsi a terra, che quello non è uno scherzo, è una rapina.

Gli altri eseguono. Io mi inginocchio invece e porto le mani dietro la nuca. Per il rapinatore non basta. “A terra, ho detto, vai giù”, sbraita. Eseguo anche io, mi distendo. A quel punto il rapinatore afferra quanto c’era in cassa, poca roba, appena più di qualche spicciolo, e perquisisce me e le altre persone che tiene sotto tiro. Quindi, apparentemente soddisfatto e senza fretta, si gira e fa per andarsene.

È quello il momento per tentare di bloccarlo, mi dico: con me avevo la pistola d’ordinanza. Il bandito poco prima non l’aveva trovata perché mi aveva controllato solo la schiena. Io la tenevo nella cinta dei pantaloni, sul ventre, e in quel momento ci ero sdraiato sopra. Prima di impugnarla attendo di essere all’estero. Allora la afferrò e proseguo, ma il colpo non è in canna, perdo tempo mentre intimo l’alt al rapinatore e al suo complice che lo attendeva in auto. Nulla. Prosegue.

Raggiungo la mia auto, parcheggiata lì accanto, mi inginocchio, armo la pistola e alzo il braccio per puntare. Ma il tempo di compiere quei gesti e il rapinatore, giunto all’altezza della Uno, si gira e apre il fuoco. Mentre osservo la scena mi accorgo che l’auto è celeste, una tonalità scura, e lo vedo quel particolare mentre il bandito fa fuoco verso di me.

Tra me e lui c’è un ostacolo, una colonna di ferro, che para alcuni proiettili e li devia. Riesco a rispondere al fuoco: sei colpi e lo centro, ne sono sicuro, vedo il lungo che cade indietro, dentro l’abitacolo, ma l’auto parte a forte velocità e prende la strada di Bologna. Contemporaneamente – è questione di secondi – cado anche io, ma al contrario del lungo (lui, lo saprò solo dopo, aveva un giubbotto antiproiettile) sono ferito all’inguine e alla gamba destra.

Ciò che accadrà da quel momento ai giorni successivi è convulso, poco chiaro, e non collego subito il mio ferimento a quella scia di omicidi e rapine che si allungava nel bolognese. La botta peggiore però arriverà dopo, anni dopo, quando verrò a sapere che era gente delle forze dell’ordine, colleghi miei. A quel punto vivo tra lo sdegno e la riluttanza ad accettare l’evidenza: quella gente, quegli uomini, erano dei pluriomicidi che avevano sparato anche ad altri operatori di polizia. E a persone disarmate, civili, cittadini: persone che andavano tutelate.

Al processo poi non un cedimento: quei delinquenti, anche quando deponevo davanti al giudice, quando raccontavo quello che mi era successo, hanno sempre dimostrato estrema freddezza e calma determinazione. Come la sera in cui mi hanno sparato.