Stefano Casarino mi invia il testo che pubblicato sotto. Segue un incontro che c’è stato lo scorso 23 marzo a Cuneo, incontro organizzato dall’associazione culturale LiberoSpazio e dedicato a Giorgio Ambrosoli, l’avvocato che ebbe il compito di liquidare l’impero finanziario di Michele Sindona e che per questo fu ucciso l’11 luglio 1979. Per discuterne era stato invitato il figlio di Ambrosoli, Umberto, autore del libro Qualunque cosa succeda. Il testo, pubblicato su alcuni giornali locali, è disponibile anche qui, su margutte.com. Ecco quanto scrive Stefano Casarino.
«Se, quando ero bambino, mi avessero ucciso “papà” per la sua attività di integerrimo, incorruttibile funzionario dello Stato e ai suoi funerali non fosse stata presente nessuna autorità pubblica, non credo proprio che parlerei dello Stato italiano come sta facendo ora Umberto Ambrosoli», è quanto pensavo tra me e me ascoltando le sue appassionate parole al Salone d’Onore del Comune di Cuneo. Organizzato dall’Associazione Culturale LiberoSpazio, l’evento ha visto una folta affluenza di pubblico e ha rappresentato un momento forte di riflessione e di condivisione sul tema, sempre drammaticamente attuale e moralmente ineludibile, della “responsabilità civile individuale per rigenerare il Paese” (tale il titolo prescelto per la serata).
Dopo la doppia introduzione di Maria Peano, Presidente dell’Associazione, e dell’on. Mino Taricco, il giornalista Gianni Martini ha letto una lettera, emotivamente molto intensa, di Giorgio Ambrosoli alla moglie. Quattro anni prima del suo assassinio. È importante riprodurne qualche passaggio:
Anna carissima,
è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della Banca Privata Italiana, atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire […]. E’ indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese. […] Con l’incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici […]. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [… ] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro.. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi (…) Giorgio
“Qualunque cosa succeda”: sappiamo, purtroppo, cosa è poi davvero successo.
È una tristissima pagina della nostra storia recente, uno dei suoi momenti peggiori: 11 luglio 1979, quattro colpi di pistola pongono termine alla vita di Giorgio Ambrosoli, ucciso davanti al portone di casa sua. Per lui, nonostante le reiterate minacce ed intimidazioni, non era stata prevista alcuna scorta.
La giustizia italiana ritenne mandante dell’omicidio Michele Sindona, lo spregiudicato banchiere che nel 1974 – proprio lo stesso anno in cui Ambrosoli fu nominato commissario liquidatore della Banca Privata Italiana – era stato definito “salvatore della lira” da Giulio Andreotti: lo stesso Andreotti che nel 2010 di Ambrosoli pubblicamente disse: «certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando».
Sindona fu condannato all’ergastolo nel 1986: qualche giorno dopo la sua condanna, il 22 marzo (siamo quindi a ventinove anni di distanza da oggi), morì avvelenato in carcere con la famosa tazzina di “caffè al cianuro”. Di questa complessa storia di malaffare, di complicatissimo intreccio tra politica, mafia, massoneria (P2), poteri occulti e compromissioni di altre figure (Roberto Calvi, Licio Gelli, eccetera), cosa sanno i giovani d’oggi?
“Qualunque cosa succeda” è anche il titolo del libro che il figlio più giovane di Giorgio, Umberto Ambrosoli, ha voluto dedicare al “papà” che lui ha perso a soli otto anni, per raccontare ai suoi figli chi è stato il loro nonno. E per raccontarlo a tutti noi, che abbiamo bisogno di sentire questa storia per bene, limpida, autentica. Anche se – anzi, a ben pensarci, forse proprio perché – non ha avuto un lieto fine.
La prima edizione del libro è uscita nel 2009: ne viene ricavata anche una mini-serie per la TV nel 2014, per la regia di Alberto Negrin e con Pierfrancesco Favino nel ruolo protagonista. Sempre nel 2014 esce la seconda edizione del libro, con una postfazione dell’attuale Presidente della RAI, Annamaria Tarantola, che all’epoca dei fatti raccontati lavorava in Banca d’Italia e che conobbe e frequentò Giorgio Ambrosoli, al quale erano già stato dedicati in precedenza sia un libro importante (Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica, Torino, 1991 di Corrado Stajano) che un pluripremiato film dall’omonimo titolo, del 1995, per la regia di Michele Placido.
Perché, allora, tornare su una memoria così dolorosa? Perché raccontare di nuovo questa storia? Rispondendo alle puntuali domande dell’intervistatore Gianni Martini e parlando nell’impressionante silenzio della sala – silenzio gravido di attenzione, concentrazione, compartecipazione emotiva -, Umberto Ambrosoli ha più volte fatto riferimento ad un concetto, quello di “coraggio”: non certo quello tronfio di eroi di cui non abbiamo alcun bisogno, ma quello che viene dal “cuore”, come rivela la sua etimologia, quello delle persone normali, comuni, che fanno con passione il loro mestiere, che vivono con pieno coinvolgimento la loro professione.
«Il mio papà – ha sempre usato questo termine, permettendo a tutti noi un incontro “intimo” con tale figura- era una persona divertente, molto spiritosa, faceva scherzi terribili ai suoi amici … Anche quando era sfinito dal lavoro, cercava sempre di trovare il tempo per giocare con noi».
La copertina del libro lo mostra mentre aiuta il suo bambino a girare il manubrio della macchinina giocattolo. Un uomo come tanti, marito, padre, pubblico funzionario. Il coraggio della normalità, del far bene tutto ciò che si sta facendo, nei diversi ruoli che si rivestono. Perché, accanto a questa particolare forma di coraggio, c’è sempre un altro concetto importante: quello di responsabilità.
Possiamo inventarci tutte le forme di controllo e di supervisione: se manca il senso di responsabilità, non può esserci nessun senso dello Stato.
Senza responsabilità personale, è il trionfo della corruzione. Ambrosoli fu incorruttibile, pur sapendo perfettamente i rischi che correva e ai quali esponeva la sua famiglia, perché era – e non poteva essere diversamente – responsabile.
Ciò gli derivava certamente dalla sua formazione cattolica, dal suo rigore morale: era un modus vivendi che non avrebbe mai potuto dismettere. E, come lui, anche il suo collaboratore, il il maresciallo della Guardia di Finanza, Silvio Novembre, che, se si fosse lasciato corrompere, avrebbe ottenuto una bella somma di denaro per curare la moglie gravemente ammalata.
Ripensare oggi a tali figure fa bene al cuore, lo solleva dallo sconforto causato dall’ennesimo scandalo, da regalie di Rolex d’oro ed altre bassezze del genere, penalmente non rilevanti, certo. Ma vale la pena di richiamare un altro concetto ribadito da Umberto: non è affatto vero che l’Italia degli anni Settanta ed Ottanta fosse migliore dell’attuale. Non fu certo un’età dell’oro, quella in cui centinaia di persone morirono uccise dal terrorismo di qualunque colore e dalla mafia.
Anni di piombo, ricordiamo quell’espressione: li può rimpiangere solo chi non sa nulla di storia. Noi non stiamo peggio di allora: assolutamente vero. Non stiamo, però, neppure tanto meglio: ed è di questo che dovremmo essere tutti lucidamente consapevoli. Ai tempi di Giorgio Ambrosoli, il suo unico referente politico fu Ugo La Malfa: dopo la sua morte (marzo 1979, quattro mesi prima dell’omicidio), il commissario liquidatore fu lasciato solo.
Soli furono lasciati poi anche altri servitori dello Stato: il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, i giudici Falcone e Borsellino, eccetera. La politica ha avuto e ha delle gravi “responsabilità”: sa di averle? Ha ragione Mino Taricco, quando nel suo discorso introduttivo ha ricordato un’importante raccomandazione di Oscar Luigi Scalfaro, che ricordava ai giovani, prima di pretendere che tutta quanta la loro piazza fosse pulita, il dovere di tenere anzitutto pulito il metro quadrato di loro spettanza.
Questa è la responsabilità civile di ciascuno di noi. Tutto parte di lì, certo. Ed è, anzitutto, un’opera di educazione, di cultura. Che parte dalla famiglia e dalla scuola. Ma non può, non deve fermarsi lì. Se solo qualche pezzetto di strada è pulito, ma tutto attorno c’è degrado. Se chi tiene pulito il proprio pezzetto viene dileggiato dagli altri. Se chi ha il compito di provvedere alla pubblica decenza, è il primo a sporcarla. Se chi occupa posizioni rilevanti di potere e di decisione non antepone il superiore interesse pubblico al proprio tornaconto personale.
C’è, oggi esattamente come ieri, davvero bisogno di “buona” politica. Di rigore. Di quell’onestà culturale e quell’abnegazione professionale di cui Giorgio Ambrosoli è esempio. A tutti i livelli del vivere civile e sociale. Umberto Ambrosoli ha concluso ribadendo la sua fede in uno Stato che è anzitutto una comunità di persone per bene, ricordando le grandi prove d’affetto tributate al suo papà, anche a grande distanza di tempo.
Onorarne il ricordo credo voglia dire applicare il suo insegnamento: avere coscienza dei doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Avere coscienza: appunto!