All’inizio furono 17 morti e 88 feriti. I numeri si riferiscono al bilancio della strage di Piazza Fontana, quella provocata da una bomba posizionata a Milano, nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura, che esplose alle 16.37 del 12 dicembre 1969. L’inizio, invece, riguarda un periodo che ormai nei libri di storia va sotto l’espressione di “strategia della tensione”.
Piazza Fontana ne segna l’ingresso e apre un capitolo nel recente passato del Paese in cui il terrorismo indiscriminato – che si è avvalso della complicità operativa delle organizzazioni neofasciste (Ordine Nuovo, nell’episodio specifico) – è stato usato come strumento politico. Ma alcuni precedenti c’erano stati.
La guerra non ortodossa
Il 1° maggio 1947, giorno della Festa dei Lavoratori, a Portella della Ginestra, in Sicilia, i morti furono 11. Ufficialmente, a sparare contro lavoratori, braccianti e contadini, furono gli uomini del bandito Salvatore Giuliano e quella strage consegnò al Paese il primo segreto degli anni della Repubblica in nome di una lotta senza riserve al comunismo. Nel 1965, poi, a Roma si tenne un convegno.
Fu organizzato all’Hotel Parco dei Principi dall’Istituto di studi militari Alberto Pollio e tra i partecipanti c’erano ufficiali delle forze armate, esponenti degli apparati di sicurezza, politici, eversori neofascisti, giornalisti e intellettuali di destra. Argomento: la guerra rivoluzionaria, chiamata anche non ortodossa, da combattere in nome della fede atlantica con sistemi diversi dai conflitti dichiarati.
Poco meno di una decina di anni prima, uomini di estrema destra si erano dati da fare creando organizzazioni come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, disciolte solo a cavallo della metà dagli anni Settanta per ricostituzione del partito fascista. Proseguirono la loro storia sotto altri vessilli, ma nell’arco della loro storia ufficiale erano già state in prima linea portando avanti campagne a suon di bombe sempre più aggressive fino ai fatti del 12 dicembre 1969.
Le vittime preventive
Ci furono persone che tentarono di fermare quelle campagne. Tra la metà di aprile e quella di giugno 1969, a Padova, c’era un commissario di pubblica sicurezza che comandava la squadra mobile e che si mise a indagare su un attentato contro il rettorato. Si chiamava Pasquale Juliano e arrivò a capire che i movimenti dei giovani di estrema destra, a iniziare da Franco Freda e Giovanni Ventura, avrebbero potuto avere conseguenze disastrose.
Quando, poco prima dell’estate, effettuò i primi arresti, la sua carriera di poliziotto venne distrutta. I neofascisti lo accusarono di aver costruito le prove contro di loro e vennero creduti. A Juliano, invece, sospeso dal servizio e dallo stipendio, non credette nessuno. Nemmeno quando nel settembre 1969, per difendersi, firmò due memoriali per l’autorità giudiziaria in cui scriveva che «erano imminenti degli attentati».
Peggio andò a un carabiniere in pensione, Alberto Muraro, che faceva il portinaio in uno stabile di Padova, in Piazza dell’Insurrezione, dove abitava un altro militante di Ordine Nuovo, Massimiliano Fachini. Muraro era l’unico testimone che poteva scagionare dalle accuse Juliano, ma morì un paio di giorni prima poter fornire la versione definitiva della sua deposizione. «Va a finire che mi troverete precipitato dentro la tromba dell’ascensore o delle scale dopo che mi hanno dato una legnata in testa» e andò proprio così. A tutt’oggi, il suo, è un omicidio irrisolto, ma Muraro viene ricordato come vittima “preventiva” di Piazza Fontana.
«Risultato devastante per lo Stato»
Depistaggi, P2, servizi segreti cosiddetti “deviati” e influenze del Patto Atlantico sono state le costanti degli anni della strategia della tensione. Sui quali, nel 2015, a valle di un processo per la strage di Piazza della Loggia (Brescia, 28 maggio 1974), è stato scritto in una sentenza: «Il risultato è stato devastante per la dignità stessa dello Stato e della sua irrinunciabile funzione di tutela delle istituzioni democratiche».