La scomparsa di Maria Grazia De Palo, per tutti Graziella, 24 anni, e di Italo Toni, 50, entrambi specializzati in Medioriente e in traffico di armi, venne denunciata dai genitori della ragazza il 4 ottobre 1980. Agli agenti della questura di Roma raccontarono che i giornalisti erano partiti il 22 agosto precedente per il Libano passando attraverso la Siria.
Per preparare il viaggio, si erano avvalsi dell’aiuto di Nemer Hammad, portavoce in Italia di Yasser Arafat, e avrebbero dovuto rientrare il 15 settembre. L’ultimo contatto avuto con la figlia risaliva al 23 agosto quando, da Damasco, Graziella aveva spedito un telegramma scrivendo solo «au revoir», arrivederci, per annunciare l’atterraggio. Dopodiché il silenzio.
Fino alla metà di settembre, tuttavia, non ci si era preoccupati, dato che era difficoltoso comunicare dal Libano, precipitato nel 1975 in una guerra civile che che durerà diciassette anni. Quando però i giornalisti non erano rientrati, la famiglia aveva tentato invano di avere informazioni dall’Olp di Roma e dalle ambasciate di Beirut e Damasco.
Solo accertamenti successivi permisero di ricostruire i movimenti della coppia fino al 2 settembre. Da Damasco, il giorno dopo l’arrivo su un aereo della Syrian Air, erano partiti in auto per la capitale libanese passando attraverso un varco controllato dai siriano-palestinesi, dato che non disponevano di un visto d’ingresso. Quindi avevano alloggiato all’albergo Triumph, nell’area ovest della città, sotto il controllo palestinese.
Il primo settembre si erano presentati all’ambasciata italiana comunicando i propri spostamenti per i giorni successivi: era infatti loro intenzione raggiungere il meridione del Paese dove realizzare alcuni reportage sulle basi del Fronte democratico per la liberazione palestinese. Il giorno successivo, dunque, venne a prenderli un’auto direttamente di fronte all’albergo, dove lasciarono i loro effetti personali. A quel punto scomparvero. E scomparve anche una parte degli oggetti appartenuti ai due giornalisti. Come un pezzo del block notes. Alla famiglia De Palo vennero però restituite diverse paia di scarpe da donna mai appartenute a Graziella.
A oggi, per il caso Toni-De Palo, c’è solo una condanna, inflitta a un maresciallo dei carabinieri, Damiano Balestra. Ai tempi della scomparsa dei giornalisti italiani, era addetto alla cifratura e decifratura dei messaggi che intercorrevano tra l’ambasciata italiana a Beirut e la Farnesina. Il sottufficiale, invece di mantenere la discrezione sulle comunicazioni tra l’allora ambasciatore Stefano D’Andrea e il ministro degli esteri Emilio Colombo, aggiornava sullo stato delle ricerche dei giornalisti il colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone, capo centro del Sismi in Libano e uomo di fiducia di Aldo Moro ai tempi dell’omonimo “lodo” che doveva garantire all’Italia una sorta di immunità dall’azione terroristica dei mediorientali in cambio del loro transito indisturbato sul territorio nazionale.
Giovannone, a propria volta, trasmetteva queste informazioni ad altre persone mai identificate. Ma soprattutto lui e il suo direttore, Giuseppe Santovito, iscritto alla loggia di Licio Gelli, hanno aiutato i sequestratori degli italiani a eludere le indagini dirottando, per esempio, gli investigatori dalla zona di Beirut occupata dai palestinesi (zona in cui De Palo e Toni scomparvero) verso il settore della città in mano ai cristiano-falangisti. E hanno dato man forte ai palestinesi quando si è trattato di denigrare – e infine bloccare – l’ambasciatore D’Andrea, che subito si era attivato per capire cosa fosse successo ai giornalisti. Inoltre – venne accertato in fase di indagine – Santovito dichiarò il falso quando disse di essere andato nell’ottobre 1980 all’ospedale americano per verificare se fosse vero (non lo era) che i corpi dei giornalisti erano tra i quattro cadaveri conservati nella struttura sanitaria statunitense. Ma Giovannone e Santovito a giudizio non ci sono mai arrivati per “morte del reo”.
Invece non si poté procedere per insufficienza di prove contro George Habbash, il referente dei gruppi più radicali dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, sospettato dal pubblico ministero Giancarlo Armati di aver partecipato al sequestro e ucciso i giornalisti italiani. Intanto dal Libano si continuò per anni a dire che Graziella era viva. Se Italo venne dato per morto «subito o quasi», ci fu chi – come Yasser Arafat e lo stesso Giovannone – garantì alla madre della giornalista che la giovane sarebbe tornata a casa presto. E, come se tutto ciò non bastasse, nella vicenda entrarono anche depistatori “abituali”, come Elio Ciolini.
Mischiando notizie vere a falsità, dal carcere svizzero dov’era detenuto, Ciolini scrisse che erano stati tenuti prigionieri in un campo dell’Olp nel sud del Libano. Qui ci sarebbero andati per intervistare Nayef Hawatmeh del Fronte democratico per la liberazione palestinese. Fin qui la parte vera della storia. Il resto, invece, parla di una casualità che sarebbe costata la vita ai giornalisti: entrando per errore in una stanza, avrebbero visto e riconosciuto un ministro e un terrorista italiani che partecipavano a una trattativa per un traffico d’armi. Alla verifica dei fatti, quest’ultima parte delle dichiarazioni di Ciolini venne ritenuta inattendibile perché pilotata dal Sismi con la collaborazione di diplomatici assegnati all’ambasciata italiana in Svizzera. Inattendibili furono giudicate le confidenze che sempre Ciolini andava facendo su un’altra vicenda, quella della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
Anche un altro presunto informatore sul caso Toni-De Palo, tale Batrouni Anware Amine, un libanese in carcere a Trieste per traffico di droga, non fu tenuto in considerazione: se in un primo momento disse di avere informazioni interessanti, poi riferì elementi già pubblicati dai giornali.
Infine, malgrado la Sureté libanese avesse condotto indagini ben orientate, la collaborazione da parte della magistratura locale fu praticamente nulla. Solo dopo molte sollecitazioni giunte da Roma, si fece meno dell’indispensabile limitandosi a interrogare il portiere dell’albergo Triumph, dove De Palo e Toni avevano alloggiato, ma l’immobilismo successivo indusse gli inquirenti italiani a inoltrare alcune rogatorie cadute nel nulla. Quando nel 1984 si giunse poi alle incriminazioni più spinose – quelle di Giovannone e soprattutto di Santovito – il colonnello del Sismi si trincerò dietro il segreto di Stato: non era possibile, a suo dire, sapere quali fossero i rapporti intercorsi tra i servizi segreti italiani e l’Olp. Il presidente del consiglio confermò.