Questo testo è un estratto del capitolo “Immobili, opere pubbliche e altri disastri” contenuto nel libro scritto con Gigi Marcucci Italia. La fabbrica degli scandali (Newton Compton). L’esito processuale per i fondi stanziati dopo il sisma in Campania e Basilicata non impedì invece di continuare a parlare di Irpiniagate. Un caso che Daniele Martini raccontava così:
Solo il 50 per cento dei fondi è andato dove doveva andare, il resto è stato dissipato. Il dopo terremoto è stata una cuccagna sulla quale hanno mangiato tutti: il 20 per cento del denaro è finito in tasca ai politici, un altro 20 per cento è andato ai tecnici della ricostruzione. Camorra, imprese del nord e imprenditori locali si sono mangiati il resto». Una giornalista inglese, Anne Webber, commentò a inizio anni Novanta: «È il più grosso scandalo che si sia mai visto in Europa». Aveva ragione, la cronista anglosassone, ma di certo non fu l’unico perché, oltre che di Irpiniagate, più avanti si sarebbe iniziato a parlare anche di «professionisti delle macerie.
Correva l’anno 2010 e si stava indagando sugli interessi nati intorno a un altro terremoto: quello dell’Aquila del 6 aprile 2009, 309 morti, 1600 feriti e 80 mila sfollati. La scossa principale, registrata alle 3.32 di notte, aveva raso al suolo tutto, compresa la città vecchia, edificata nel xiii secolo sul modello di Gerusalemme. Si sbriciolarono chiese e fontane mentre alcuni dei 55 comuni coinvolti furono polverizzati. L’immensa forza distruttiva del sisma provocò danni per 10 miliardi di euro. Ma per qualcuno scarso margine andava concesso al cordoglio e alla commozione, anche nelle primissime fasi della catastrofe.
Nel corso di una conversazione intercettata dopo le prime scosse un costruttore era stato sentito dire al cognato: «Qui bisogna partire in quarta subito. Non è che c’è un terremoto al giorno». Spaventosa la risposta: «Io ridevo stamattina alle tre e mezzo dentro il letto». Insomma, bisognava speculare su vite e città cancellate da una sciagura, non c’era un attimo da perdere. Il moto di agghiacciante allegria ascoltato dagli investigatori era stato innescato dal pensiero del denaro che si sarebbe incassato ricostruendo i centri danneggiati dal sisma. Discorso vecchio, questo, come ha scritto Sergio Rizzo:
«Già nel 1884 la commissione d’inchiesta sulla situazione dell’agricoltura presieduta da Stefano Jacini denunciava i rischi per l’assetto idrogeologico del disboscamento selvaggio in atto ormai da anni in Italia. Da allora si è andati di male in peggio […]. Nessuno è in grado di dire esattamente quale giro d’affari abbiano messo in moto i terremoti dal 1968, anno del sisma nel Belice, a oggi. Ma una valutazione di 140 miliardi di euro non è irrealistica. E senza considerare il costo del terremoto dell’Abruzzo».
Gli interventi per la ricostruzione in Irpinia hanno avuto una ricaduta economica che ha interessato tre decenni di storia italiana, tra accise sui carburanti e stanziamenti successivi. I costi per il ripristino delle infrastrutture è stato di 27 volte più elevato rispetto alle previsioni, quasi la metà delle concessioni per lotti industriali furono revocate, e dai fallimenti delle aziende che avevano ricevuto fondi pubblici nella sola provincia di Salerno solo il 21 per cento era stato recuperato.
E se la gestione del terremoto dell’Emilia Romagna, messa in ginocchio dopo le scosse del 20 e del 29 maggio 2012, è stata paragonata per virtù a quella del Friuli del 1976, la vicenda dell’Irpinia insegna che non c’erano solo gli interessi di rapaci speculatori del mattone (e dei loro alleati politici, finanziari e bancari) da tenere sotto controllo. C’erano anche quelli della criminalità organizzata. I primi segnali in questo senso, per il sisma del 1980, arrivarono con l’omicidio, il 16 dicembre di quell’anno, del sindaco di Pagani, Marcello Torre. Era stato eletto il 7 agosto precedente e quando anche il suo comune fu colpito dal terremoto aveva dichiarato guerra alla camorra cutoliana interessata alle procedure per l’assegnazione degli appalti che sarebbero derivati dalla ricostruzione. E in tema scriveva ancora la commissione d’inchiesta Scalfaro:
«La camorra si insinua nella rimozione delle macerie, poi passa alle opere di urbanizzazione per l’installazione dei prefabbricati e dei container. Vicende come queste sono registrate da varie sentenze istruttorie, che menzionano anche i fitti rapporti tra questi imprenditori-camorristi, da un lato, e dall’altro, gli amministratori locali, le imprese destinatarie di altri appalti (che poi assicureranno al camorrista i subappalti), i grandi boss. Un caso noto è quello degli appalti per i prefabbricati pesanti di Avellino, in cui risultano coinvolti Roberto Cutolo, figlio di Raffaele, Francesco Pazienza e Alvaro Giardili. Il processo ha avuto un decorso travagliato, è stato suddiviso in vari procedimenti e alla fine tutti gli imputati sono stati assolti con formula piena […]. La presenza della camorra nelle aree interne è ancora testimoniata da altri eventi (l’affare delle estorsioni alla silar nei cantieri per la tangenziale di Avellino, l’assassinio del vicesindaco delegato alla ricostruzione a Sant’Agata dei Goti, dove nel luglio 1990 fu incendiato il municipio e bruciò tutta la documentazione sulla ricostruzione, eccetera). Naturalmente, essa è preponderante nelle aree dell’entroterra napoletano, vesuviane, del casertano, dell’agro sarnese-nocerino, in cui il suo insediamento già era in partenza più rilevante. I settori privilegiati sono, oltre alle forniture di cemento e calcestruzzo, le demolizioni, gli scavi, i movimenti di terra, le cave. Lo conferma anche l’elenco delle imprese note per essere legate ai clan, inviato alla commissione dalla Cgil».
Da notare che, per una circolarità inquietante, alcuni dei nomi che emergevano dagli atti della Commissione parlamentare sul terremoto del 1980 si legavano a vicende come quella del Supersismi, il pezzo di servizio segreto militare completamente controllato dalla p2. Molti nomi, come quello di Pazienza, rimbalzavano in indagini su stragi e depistaggi, in quelle sul crac del Banco Ambrosiano, culminato con l’omicidio del suo presidente, Roberto Calvi, e su sequestri eccellenti, primo fra tutti quello dell’assessore democristiano ai Lavori pubblici della Regione Campania Ciro Cirillo a cui era stata assegnata la delega alla ricostruzione.
Per l’Irpiniagate, la conclusione non è stata molto diversa da quelle raggiunte in occasione dei disastri del Vajont e di Stava: la storia si ripete molto simile a se stessa. Gli sviluppi successivi ai terremoti del 1980 e del 2009 in Abruzzo sono da mettere in relazione. Di questo ci si convince leggendo la relazione della Commissione per il controllo dei bilanci (cont, una sorta di Corte dei conti europea), firmata dal danese Søren Bo Søndergaard, deputato europeo della Sinistra unitaria, insieme all’italiano Roberto Galtieri. Nonostante il 16 aprile 2009, dieci giorni dopo il terremoto, la procura della Repubblica dell’Aquila avesse creato un pool di magistrati che aveva il compito di evitare le infiltrazioni delle mafie, qualche timore che qualcosa del genere potesse accadere c’era. Inoltre, tra il 2010 e il 2011 erano state avviate indagini giudiziarie proprio su un uso improprio dei fondi da parte delle organizzazioni criminali.
E l’interesse di Bruxelles derivava dal Fondo di solidarietà dell’Unione europea (fsue), 493,7 milioni di euro da destinare alla ricostruzione: occorreva accertare che quel denaro non fosse finito nelle mani dei clan, soprattutto alla luce di dubbi sulle gare d’appalto, comprese quelle per la fornitura e il mantenimento dei bagni chimici, e sull’utilizzo di quei milioni, non sfruttati per ricostruire, ma per affrontare l’emergenza. In altre parole, invece di ricostruire subito reti elettriche, idriche, fognarie, viarie e così via, il progetto case (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili) aveva assorbito il 70 per cento del finanziamento europeo – circa 350 milioni di euro – non rispettando «in modo tempestivo e con sufficiente capacità gli effettivi bisogni della popolazione. Gli edifici costruiti nell’ambito del progetto case sono stati molto più cari rispetto a quelli costruiti in situazioni normali». E questo nonostante, secondo l’istituzione europea, avessero problemi agli impianti elettrici e di riscaldamento, fossero stati impiegati materiali non ignifughi e almeno 200 isolatori sismici risultassero difettosi.
Ancora secondo la Commissione per il controllo dei bilanci, ad agosto 2013 la situazione del centro storico dell’Aquila rimaneva quella di tre anni prima, quando il relatore Søndergaard aveva effettuato la prima visita (7-8 ottobre 2010). Nella zona rossa solo due edifici, uno pubblico e uno privato, erano stati ricostruiti. Ma gli aspetti più preoccupanti riguardavano le strutture del progetto map (Moduli abitativi provvisori):
«[Essi sono realizzati con] materiali da costruzione utilizzati […] generalmente di scarsa qualità; alcuni moduli map sono stati evacuati a seguito di ordinanze del procuratore dell’Aquila secondo cui le case in questione presentavano “difetti” che generavano “pericoli per l’incolumità”. L’intero map di Cansatessa è stato evacuato (54 famiglie) a seguito dell’ordinanza del procuratore. Inoltre, la persona responsabile degli appalti pubblici per questo progetto è stata arrestata e altre dieci persone sono attualmente indagate. Altre 34 famiglie sono state evacuate dal map di Arischia e 15 famiglie dal map di Tempera; rischio di incendio: il map di Monticchio ha preso fuoco a causa del difettoso sistema elettrico nell’edificio. L’impresa che ha costruito questo map non esiste più; inoltre, l’intonaco utilizzato è infiammabile e presenta pertanto un rischio di incendio; molti map presentano problemi alle tubature dell’acqua, umidità, muri rotti, pavimenti rotti, problemi alle fognature e alle finiture».
Le anomalie erano molte. Di importanza non secondaria quelle segnalate nel capitolo dedicato alla criminalità organizzata. Scriveva nell’ottobre 2013 la Commissione per il controllo dei bilanci, avvalendosi anche di relazioni presentate dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti e dalla testata telematica Site.it:
«Alcuni subappaltatori non disponevano dell’obbligatorio “certificato Antimafia”; il dpc [Dipartimento della protezione civile, nda] ha incrementato i subappalti dal 30 per cento consentito al 50 per cento; nelle fabbriche di […] uno dei 15 appaltatori dei progetti, sono stati trovati criminali ricercati dalle forze dell’ordine […]. Il procuratore della Repubblica dell’Aquila ha aperto una serie di indagini sugli appalti pubblici. Una di queste indagini si è conclusa con un ordine di evacuazione di diversi map per motivi di sicurezza e la persona responsabile dell’appalto è stata arrestata; sin dall’inizio, la Commissione [bilancio dell’Unione europea] si è rifiutata di considerare scorretta la procedura d’appalto del dpc, sostenendo che l’urgenza giustificava le scorciatoie e le falle in detta procedura.
Tuttavia, per esempio, i contratti per i bagni chimici sono stati completati prima del terremoto, in flagrante violazione delle normative dell’ue in materia di appalti pubblici; parte dei fondi per i progetti case e map sono stati versati a imprese che sono direttamente o indirettamente legate alla criminalità organizzata; eppure, la documentazione relativa a queste gravi accuse non è stata inserita nell’audit della Corte, visto che le autorità italiane competenti non l’hanno resa pubblica; nella […] udienza al parlamento europeo del 25 giugno 2013, la Commissione ha affermato di aver scoperto casi di frode. La Commissione sostiene di aver comunicato tali riscontri al dpc e che, successivamente, il dpc ha sostituito i progetti associati alle frodi con progetti regolari. Non è chiara la ragione per cui la Commissione abbia scelto di abbandonare la normale procedura, che avrebbe comportato la trasmissione dei fascicoli sospetti all’olaf [Office européen de lutte anti-fraude, Ufficio europeo per la lotta antifrode, nda] per un’ulteriore analisi e il coinvolgimento delle autorità giudiziarie italiane. Preoccupa molto che la Commissione non abbia seguito la procedura corretta, poiché ciò la rende una complice della frode».
Uno scandalo nello scandalo, insomma, stavolta ai danni dei contribuenti europei. Il costo al metro quadro degli edifici era stato aumentato del 158 per cento usando nel 42 per cento dei casi denaro comunitario e non italiano, come invece affermava l’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Inoltre il calcestruzzo era stato acquistato spendendo 4 milioni di euro in più del previsto e fino a 21 erano i milioni aggiuntivi spesi per i pilastri dei palazzi mentre raggiungevano quota 132 le imprese che avevano ottenuto subappalti senza averne i requisiti. Infine veniva raccomandata la restituzione da parte dell’Italia dei fondi europei perché, per citare il titolo di un articolo del New York Times del 30 novembre 2012, L’Aquila era «un esempio da non seguire».