Loredana Lipperini, nel 2007, aveva firmato per Feltrinelli un libro che si intitolava “Ancora dalla parte delle bambine”, eredità ideale del quasi omonimo libro di Elena Gianini Belotti per spiegare il “ratto” dell’infanzia e dell’adolescenza, sostituito da una forzatura della crescita verso ruoli (compresi quelli erotici ispirati dai mass media) tipici dell’età adulta. Con il recente “Non è un paese per vecchie”, l’autrice compie un salto temporale e passa all’ultima parte della vita, per raccontare di una nazione in cui si è instaurato un nuovo tabù: quello della naturale decadenza fisica e psicologica che precede la morta, e del suo esorcismo collettivo officiato a tutti i costi. Compreso quello che prevede la ghettizzazione dei cittadini più avanti con l’età, collettore di nuove forme di odio derivanti da un assetto sociale sempre più povero ed esasperato.
Perché affrontare il discorso della vecchiaia e iniziare il libro lavorando sul cambiamento semantico registrato sui media?
Per tanti motivi. Un po’ perché c’era una sollecitazione sociale prima che semantica. È una cosa che ho raccontato molte volte: una lettrice che a Bari mi disse “occupati anche di noi”. È la cosiddetta “generazione sandwich”, quella che accudisce i nipoti e gli anziani e che in effetti sopperisce a un’assenza totale dello Stato. Questo molto prima che si rendesse noto che l’Italia è penultima, prima della Polonia, nell’Europa a 27 per l’assistenza alle famiglie. E poi c’era una considerazione che riguardava in realtà la mia generazione, quella dei cinquantenni e quella che io metto più sotto accusa nel libro: è qui che nessuno accetta la definizione di persona non dico vecchia, ma quanto meno matura. Volevo insomma spiegare questa impersonificazione di se stessi come eterni giovani. Una tendenza che sfalsa tutto perché, se non si accetta la propria età, si spalmano in un unico insieme tutte le generazioni, quelle che vengono prima e quelle che vengono dopo. Dunque vediamo le bambine crescono in fretta per diventare simili al modello adulto proposto e le donne mistificano l’ultima parte della vita adulta. Al centro di questa tendenza, si pone la vecchiaia, che diventa questa zona piccolissima prima della morte.
Alcuni passaggi lasciano intuire – anzi, denunciano – una prossima emergenza vecchiaia per l’Italia. Di quali elementi si comporrà questa emergenza, che già ha iniziato a manifestarsi?
Secondo me, come per le bambine, le cose sono precipitate negli ultimi quindici anni, che coincidono con il berlusconismo, ma non sono solo quello. Come dice Mario Tronti, il problema non è il cavaliere, ma il cavallo. Si è iniziata a delineare allora una certa Italia, ma anche una certa Europa, per quanto l’Italia sia più evidente, che cominciava a perdere il senso di comunità e vedeva ciascuno rinchiudersi nella propria personalissima individualità. Non esiste così più nient’altro che se stessi e le proprie quattro mura. Per rintracciare le origini prime di questo fenomeno bisogna tornare a quando – siamo negli anni Ottanta – Margaret Thatcher dice che non esiste la società, esiste la famiglia. Di qui il fenomeno comincia a incrementarsi. Ti faccio solo un esempio: il lavoro che viene scippato ai giovani dagli anziani. Nessuno dice mai che in Italia, nella fascia d’età 51-64 anni, a lavorare è il 38 per cento delle persone mentre in Svezia è il 70. Dunque quest’affermazione non è vera: è la classe di potere che è in mano agli anziani, ma non certamente il mondo del lavoro. Oltretutto una cosa che a me fa piacere del libro è che le persone più giovani lo stanno comprendendo perché sono due solitudini speculari, quella degli anziani e quella dei giovani, due drammi lavorativi, una contrapposizione che non dico sia creata ad arte, ma che sicuramente fa comodo.
Quello che stai tracciando è un ulteriore aspetto della guerra tra poveri che abbiamo visto accendersi in più occasioni?
Sì. A me la cosa che colpisce è che l’antagonismo nei confronti dei vecchi non è un antagonismo di valori, ma è un antagonismo di soldi. Questo fa abbastanza paura.
Quali azioni dovrebbero essere intraprese per correggere questa tendenza?
Allora, le azioni nei confronti dell’Italia dovrebbe metterle in atto l’Unione europea per tanti motivi. Non è soltanto il pensionamento femminile ritardato ad aver suscitato molte polemiche, anche comprensibili, ma l’Italia avrebbe avuto l’obbligo entro il 2010 di elevare al 50 per cento la percentuale dei lavoratori in quella fascia d’età (così come avremmo l’obbligo di accrescere l’occupazione femminile e non è stato fatto). Questa è comunque una responsabilità nei confronti della discriminazione dei lavoratori più anziani, che si traduce in perdita di competenza, di saperi. È chiaro che conviene alle aziende. Per esempio i giornalisti che vengono prepensionati a 58 anni sono rimpiazzati da persone più giovani che costano un terzo in meno. Si tratta di un meccanismo che giova alle aziende e non certo alla società. Questa è una cosa, però è a livello europeo che noi avremmo bisogno di questo tipo di sanzioni. Per me, poi, la primissima cosa che bisogna sempre fare è rendersi conto di come stanno le cose favorendo una diffusione di consapevolezza. Va detto che un Paese che in cui tutti i partiti o quasi si vergognano di utilizzare la parola “welfare”, è un Paese che non andrà lontano. Qualcuno, magari in sede di voto, dovrà prendere atto di tutto questo, che a me sconvolge. Il fatto che adesso la parola “welfare” sia impronunciabile, salvo qualcuno (Vendola, per esempio), è gravissimo.
Lasciando dunque sulle famiglie un carico devastante…
Longanesi, io lo ricordo, era quello che diceva che sulla bandiera italiana bisognava scrivere “tengo famiglia”. Oggi le famiglie stanno facendo quello che lo Stato non fa. Questo ormai da anni ed è a carico delle donne, soprattutto.
In parte lo hai già introdotto, ma più specificatamente come “Non è un paese per vecchie” si pone in linea di continuità con “Ancora dalla parte delle bambine”?
Sono le due fasce d’età che io individuo come le fasce deboli del sociale e del culturale. In futuro mi occuperò della fascia di mezzo e in particolare delle madri. Sono tre aspetti del femminile e uso il termine “femminile” non a caso. Sono infatti convinta che occuparsi della questione femminile significhi non chiudersi in una nicchia. In realtà, occuparsene vuol dire occuparsi del sociale, la vera cartina di tornasole di quello che non funziona nel nostro Paese. Lo affermano del resto anche gli esperti di welfare maschi e il World Economic Forum. Dunque non è assolutamente rinchiudersi in una nicchia, ma dire “non funziona per questo motivo”. L’errore più grande che si possa fare è quello di pensare che occuparsi di questione femminile significhi riportare in auge un certo femminismo “separatista”.
Nel libro fai molti riferimenti alla rete e all'”allergia”, chiamiamola così, che da qui emerge nei confronti della terza età. È un fenomeno che appare più crudo di quello che è, in forza della disintermediazione (e anche della disinibizione) che nel bene e nel male attraversa la rete, o è uno specchio veritiero del sentire diffuso nella vita reale?
Sono le due cose insieme. In rete – e in particolare su Facebook – è un fenomeno che sicuramente amplifica un sentire comune, ma non nasce qui. Vedi quello che sta succedendo con Sarah Scazzi, che è abbastanza impressionante: esiste infatti questa necessità di esserci a tutti i costi per cui sono nati veri e propri profili a suo nome che puoi aggiungere agli “amici”. Uno si chiede il perché. È la necessità di partecipare, di essere presente per forza, anche in un modo narcisista ed esagerato. A volte la rete è anche questo, persone che chiedono disperatamente di essere al centro dell’attenzione. È una richiesta violentissima che si lega peraltro alla già citata Thatcher: nel momento in cui ogni individuo pretende il diritto di essere sotto il cono di luce del riflettore, cerca di farlo con tutti i mezzi possibili. Un sentimento di questo tipo credo però che sia reale. Certo, non ovunque, ci sono ragazzi che con la vecchiaia hanno un ottimo rapporto e forse sono la maggioranza, voglio sperare che lo siano. Ma nel momento in cui vengono condotte specifiche campagne da parte degli organi di informazione e della televisione (ricordiamoci quello che dice Tullio De Mauro: la maggior parte degli italiani non è in grado di leggere un quotidiano e si informa attraverso il piccolo schermo, cioè Italia1 e Canale5 in primis), fatalmente sei portato a dire che veramente, se tu non trovi lavoro, la colpa è dei pensionati. Quindi, se da qualche parte devi indirizzare il tuo odio, lo indirizzi sulla terza età. Per questo dico che c’è un’attendibilità nel mondo reale.
Hai fatto più riferimenti a Margaret Thatcher, al valore della famiglia, agli anni Ottanta, quando dilaga il fenomeno del riflusso, la prevalsa del privato sul politico e dunque anche sul sociale. Si può dire che è usciti dagli anni Ottanta e soprattutto da quella logica?
No. Posso solo augurarmi di uscirne perché, quanto meno, si comincia a essere un po’ fuori dalla fascinazione di quel periodo. Forse abbiamo smesso di credere che fosse tanto divertente, gradevole e amabile scrollarsi di dosso la serietà. Certo è che questo è un Paese che non sogna, è l’unica definizione che mi viene in mente per l’Italia. È un Paese che non riesce ad avere uno sguardo lungo, progettuale. Fino a quando non riusciamo a recuperare questo, forse avremo dei problemi. Alla fine però sono un’ottimista e voglio credere che ne usciremo, eccome, si tratta di trovare il collante perché, secondo me, c’è un gran desiderio di uscirne e di rifare gruppo, se non altro, di rifare comunità. Però bisogna trovare il catalizzatore.
(Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Domani diretta da Maurizio Chierici)
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