Rita Guma, presidentessa nazionale della onlus Osservatorio sulla legalità e sui diritti, poco tempo fa ha scritto alcune considerazioni sugli aspiranti giornalisti: strada sempre più in salita. Se alla situazione tracciata si aggiungono le note di Lsdi a proposito del giornalismo digitale, forse non si tratta ancora del “colpo di grazia” di cui si parlava con Christian Diemoz in uno scambio di mail in proposito, ma ci si avvicina. Ecco di seguito cosa scrive Rita Guma.
Oggi non è indispensabile laurearsi in materia o passare l’esame di professionista per accedere alla professione di giornalista, ma basta un diploma qualsiasi (legge 69/1963) e operare due anni presso una redazione con rapporto di collaborazione retribuito producendo nei due anni precedenti alla richiesta d’iscrizione un certo numero di articoli (da 24 fino a 90, a seconda della periodicità della testata e a seconda dell’Ordine regionale di competenza) (NOTA 1).
Certo è un metodo che espone a molti problemi, per il fatto che in quel periodo si è totalmente in balia della testata, che se non paga si perdono non solo i compensi, ma anche la validità della documentazione (ma non ci si può ribellare altrimenti si perde la collaborazione e – perdendo la continuità – si perde tutto il pregresso ai fini dell’iscrizione all’Ordine).
Ma il vero grave problema sono gli alti importi della retribuzione richiesta da molti Ordini per la validità del periodo di “tirocinio”, il che comporta il fatto che le redazioni tendano a rifiutare la collaborazione a persone che non siano parenti di un VIP. Prova ne sia una ricerca dell’Ordine dei giornalisti del 18 maggio 2010 dal titolo “Smascheriamo gli editori”, che presenta un quadro nero della retribuzione media dei giornalisti sulle grandi e medie testate italiane: le retribuzioni (lorde) dei giornalisti in genere si aggirano sui 2,5-10 euro a notizia oppure ad articolo (eccetto che per alcune testate nazionali, con 30-50 euro), mentre per l’accesso alla professione gli Ordini regionali dei giornalisti impongono una retribuzione minima di 25 euro per la notizia, 60 per l’articolo (NOTA 2), cioè quanto stabilito dal tariffario nazionale dei giornalisti già iscritti all’Ordine.
Questo significa che i giornali – pur pagando ai giornalisti iscritti agli Albi cifre risibili – dovrebbero essere disponibili a pagare 10 o 20 volte tanto i semplici aspiranti giornalisti. E non per un articolo (che potrebbe essere uno scoop particolare), ma per i 24-90 articoli richiesti in un biennio. Appare evidente che o la norma è fatta per impedire alla quasi totalità dei cittadini di iscriversi agli Ordini, oppure che chi riesce ad iscriversi è amico o parente del direttore, dell’editore o di un politico o altro personaggio importante. Solo in questi casi è pensabile che le redazioni accettino di compensare con 60 euro un lavoro che ad un giornalista professionista pagherebbero mediamente un decimo o un ventesimo di tale cifra.
Il problema delle retribuzioni è tanto attuale che qualche giorno fa l’Ordine dei giornalisti rendeva nota l’esistenza di alcune proposte di legge “per promuovere l’equità retributiva nel lavoro giornalistico”, alla Camera e al Senato. Uno dei parlamentari denunciava con scandalo i “dati della vergogna” contenuti nella ricerca fatta dall’Ordine. Ma che i dati siano una vergogna lo diciamo anche qui, con riferimento tuttavia non ai giornalisti già iscritti, ma ai requisiti richiesti dall’Ordine per l’iscrizione agli Albi dei giornalisti. E non è pensabile che gli Ordini non lo sappiano, sia perché sono essi stessi fatti da giornalisti, sia per via della ufficializzazione dei risultati della ricerca di cui sopra.
Tuttavia ad oggi – almeno teoricamente – qualsiasi cittadino diplomato potrebbe divenire giornalista, mentre la legge di riforma che l’Ordine dei Giornalisti sta cercando di far approvare lo impedirà, consentendolo solo a chi ha fatto un preciso corso di studi universitari riconosciuti dall’Ordine (NOTA 3). Questo significa anche che per 5 anni (cioè fino alla laurea) ci saranno pochissimi nuovi giornalisti e che i giornalisti che verranno infine fuori dal cilindro saranno specializzati solo in giornalismo, e difficilmente si avrà un avvocato-giornalista, un tecnico-giornalista, un economista-giornalista e meno che mai un diplomato-giornalista. Tutti gravi danni, a mio avviso, per la professione e l’informazione.
La motivazione che così ci sarà maggiore deontologia e maggiore preparazione è inconsistente, dato che moltissimi giornalisti di vecchia data perfettamente al corrente della deontologia l’hanno più volte bellamente ignorata e che questa non si impara, ma si decide di rispettare o ignorare in base al proprio codice morale (e anche in base al numero degli interventi disciplinari degli Ordini). Per la preparazione, invece, basta considerare che una laurea in giornalismo non offrirà certo competenze su tutto lo scibile umano – non essendo una superlaurea per supereroi – il che significa che tali giornalisti trasmetteranno ogni informazione ricevuta da ‘esperti’ e non ci saranno giornalisti esperti in grado di confutarla o vagliarla con competenza.
E se il controllo di tali scuole sarà preso da qualcuno orientato politicamente? Si potrebbero avere insegnamenti e selezioni dirottate in un senso ben determinato. Ma, ciò che più ci interessa, cosa ne sarà dello spirito della norma, che mirava a garantire ad ogni cittadino con una preparazione di base accettabile la possibilità di divenire giornalista, per la piena attuazione della libertà di parola e la reale completezza dell’informazione?
A questa obiezione l’Ordine nazionale, nella presentazione della riforma per l’accesso alla professione, risponde che occorre “distinguere tra l’informazione e altre libere manifestazioni, come le opinioni e più in generale ogni tipo di espressione. L’informazione, in regime democratico, non soltanto è un diritto, ma anche un dovere. Del diritto sono titolari sia i giornalisti (libertà di stampa) sia i cittadini tutti (diritto di essere informati); il dovere, invece, è in capo ai soli giornalisti, come esplicita la legge Gonella all’art. 2. Dire dunque che l’informazione la fanno i giornalisti, ed essi soltanto, lungi dal configurare una esclusione o una limitazione di diritti di tutti, rappresenta invece una garanzia democratica; e soprattutto non viola in alcun modo l’art. 21 della Carta Costituzionale, dove si riconosce a tutti il diritto ‘di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione’. In concreto, non potrebbe, e non è riservata ai soli iscritti all’Ordine la facoltà di scrivere sui giornali o esprimersi con altri mezzi che ad essi si possono assimilare”.
Ma non è vero, perché se un cittadino normale scrivesse ogni giorno (come in un blog) od ogni settimana un articolo come quello che ho scritto qui (per forza di cose comprendente informazioni per motivare le proprie critiche) potrebbe essere tacciato di fare un periodico (le cui caratteristiche sono la periodicità ed il fatto di pubblicare informazioni) senza averne il diritto in quanto non giornalista. Quindi, delle due l’una, o i normali cittadini dovrebbero parlare ‘una tantum’ o omettere ogni informazione dai loro articoli (quindi parlare del nulla) oppure potrebbero essere accusati dei reati di stampa clandestina ed esercizio abusivo della professione. A meno – beninteso – di non prendersi una (magari seconda o terza) laurea in giornalismo.
L’alternativa – qualora passasse la riforma – consisterebbe nell’ottenere ospitalità per le proprie riflessioni su una testata registrata, eventualità rarissima per persone e organizzazioni normali (soprattutto per persone critiche) che non abbiano i giusti agganci.
Come sopra, insomma, sempre ‘in onore’ dell’art. 21 della Costituzione.
(NOTA 1) Legge n. 69/1963
Art 1. (…) Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi. (…)
Art 35. Per l’iscrizione all’elenco dei pubblicisti la domanda deve essere corredata oltre che dai documenti di cui ai numeri 1), 2) e 4) del primo comma dell’art. 31 (*), anche dai giornali e periodici contenenti scritti a firma del richiedente, e da certificati dei direttori delle pubblicazioni, che comprovino l’attività pubblicistica regolarmente retribuita da almeno due anni.
(*) estratto dell’atto di nascita; 2) certificato di residenza; 4) attestazione di versamento della tassa di concessione governativa, nella misura prevista dalle disposizioni vigenti per le iscrizioni negli Albi professionali).
DPR n. 115/1965 e successive modificazioni:
Art. 34 Ai fini dell’iscrizione nell’elenco dei pubblicisti, la documentazione prevista dall’art. 35 della legge deve contenere elementi circa l’effettivo svolgimento dell’attività giornalistica nell’ultimo biennio. (…) Il Consiglio regionale o interregionale può richiedere gli ulteriori elementi che riterrà opportuni in merito all’esercizio dell’attività giornalistica da parte degli interessati.
(NOTA 2)
L’Ordine dei giornalisti della Sicilia chiede nel biennio attestazioni di pagamento per almeno 1000 euro per 60/90 articoli (16 euro ad articolo)
L’Ordine dei giornalisti del Piemonte si rifà al tariffario nazionale dei giornalisti, dove per i piccoli giornali è previsto un compenso di 25 euro per le notizie brevi e 60 per gli articoli, e richiede un totale di almeno 1.600 euro nel biennio
Per l’Ordine dei giornalisti del Lazio la retribuzione deve essere di minimo 5.000 euro lordi nel biennio per 80 articoli (62,5 euro ad articolo!).
(NOTA 3)
La riforma dell’accesso alla professione di giornalista prevede un canale di accesso unico attraverso:
- a) una fase di formazione preliminare coincidente con la laurea (laurea triennale se ci riferisce al nuovo ordinamento oggi in vigore) conseguita nelle università italiane e nelle università estere i cui stati riconoscano la reciprocità.
- b) una seconda fase di specializzazione, di due anni, da realizzare in forme diverse, e cioè:
- 1) laurea magistrale in giornalismo che conduca all’esame professionale
- 2) master specifico riconosciuto dall’Ordine dei giornalisti
- 3) scuole di giornalismo collegate ad una struttura universitaria.
Per un periodo transitorio straordinario di cinque anni gli editori potranno continuare ad usufruire della chiamata diretta in redazione di giovani laureati, ma esclusivamente con il contratto di praticantato, da accompagnare con un percorso di formazione stabilito e verificato dall’Ordine dei giornalisti.
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