Il 13 ottobre è il giorno in cui vengono ricordate le vittime delle banda della Uno Bianca. Oggi, alle 15.30, presso i giardini bolognesi di via Lenin-Populonia, ci sarà la cerimonia di commemorazione. In merito alla recente vicenda di Fabio Savi, lo sciopero della fame iniziato a fine agosto è stato interrotto qualche giorno fa, dopo il trasferimento dall’ospedale di Voghera a un nosocomio di Milano.
Nell’agosto 2006, a pochi giorni dall’indulto, un ergastolano, Roberto Savi, chiese la grazia. Aveva scontato meno di 12 anni per l’omicidio di 24 persone e il ferimento di 102. Poche settimane fa un altro ergastolano, Fabio Savi, fratello di Roberto, ha chiesto una cella singola, il trasferimento a Firenze per avvicinarsi alla moglie e la detenzione in un carcere non di massima sicurezza. Per raggiungere il suo scopo, inizia lo sciopero della fame ed è ricoverato in via prudenziale all’ospedale di Voghera, la città presso cui si trova l’istituto di pena nel quale è rinchiuso.
Per quanto meno clamorose rispetto alle pretese di Roberto Savi, anche quelle di Fabio hanno suscitato polemiche perché riportano l’attenzione su una delle più sanguinarie vicende criminali di questo Paese: quella della banda della Uno bianca. Per comprenderne si inizi dai numeri. C’è una banda composta da sei persone: Roberto, Fabio e Alberto Savi, Luca Vallicelli, Marino Occhipinti e Pietro Gugliotta, scarcerato per fine pena nell’agosto 2008. Cinque sono poliziotti e compiono 103 incursioni, ma tante le volte in cui i banditi tornano a casa a mani vuote.
Anni di errori e depistaggi
Oggi è certo che in quegli anni ci fu chi non seppe guardare nella direzione corretta: ci fu chi indagò su clan di catanesi, bande delle Regate e delle Coop o neonate organizzazioni criminali, come l’inesistente quinta mafia bolognese. Non mancarono nemmeno conflitti di competenza, difetti di coordinamento tra procure, personalismi e carrierismo.
Eppure tutto ciò – che pur si verificò – non sembra abbastanza. Gli atti processuali e il lavoro dei pm Valter Giovannini a Bologna e Daniele Paci a Rimini, pur non avendo potuto accertare l’esistenza di complici, non escludono che qualcuno sia rimasto nell’ombra. Si aggiunga poi che nel giudizio di primo grado il ministero dell’Interno è stato ritenuto responsabile della condotta dei suoi uomini e chiamato a risarcire le vittime (inutilmente, dato che la Cassazione, su ricorso del ministero stesso, ha poi ribaltato questa parte della sentenza scritta da Libero Mancuso).
Quali dunque i passaggi che hanno consentito alla banda di uccidere tanto a lungo? Come primo punto,c’è la sottovalutazione di alcuni elementi. Si prendano le armi utilizzate, sempre le stesse fino al maggio 1991, dopo l’assalto all’armeria bolognese di via Volturno: due morti per rubare due Beretta. Prima di quest’azione le armi erano sempre quelle personali dei banditi, regolarmente denunciare. Ce n’è una caratteristica: un fucile AR70, versione venduta ai civili di un analogo modello militare, posseduto da poche persone in Emilia Romagna. Ma i controlli non andranno oltre la disponibilità di Roberto Savi che aveva quel fucile, lo cambia con uno pulito e lo mostra ai colleghi.
C’è poi l’effetto destabilizzante – voluto o meno che fosse – sentito Bologna a livello sociale e politico. Lo testimonia lo scontro tra l’allora sindaco Renzo Imbeni e il prefetto Giacomo Rossano. Da un lato il Comune accusa le forze di polizia di ritardi e cattiva organizzazione. Dall’altro per la prefettura la colpa è dell’amministrazione, troppo morbida nell’accogliere rom e immigrati e assente nell’integrarli. Intanto il controllo del territorio viene rafforzato, i turni delle volanti raddoppiati e l’organico rimpinguato con un «contingente straordinario» di 80 uomini.
La xenofobia, dunque, oltre al movente pecuniario, sembra uno dei caratteri distintivi della banda. Carattere che incrina la stessa giunta: una parte di essa vorrebbe introdurre un numero chiuso per i nomadi e un’altra afferma che il problema sono gli extracomunitari. Sono infatti loro i bersagli di un lancio di molotov dell’autunno 1990 contro una scuola del Pilastro, quartiere difficile della città. Quella volta i responsabili erano persone del posto, tra cui Davide Santagata, fratello di William e Peter, i due finiti a processo per l’omicidio dei tre carabinieri uccisi il 4 gennaio 1991. Dunque, quando i Savi uccideranno i militari proprio in quel quartiere, diranno – tra le tante affermazioni non di rado ritrattate – di aver voluto far cadere la responsabilità più o meno sulle stesse teste.
Insomma, i banditi depistano le indagini che li riguardano. Lo fanno anche con un’auto bruciata nei pressi la stazione di servizio Cantagallo, sull’autostrada per Firenze, dentro cui hanno messo proiettili militari calibro 223. Un tentativo che, seppur fallito, vorrebbe indirizzare verso i corpi speciali delle forze armate (forse Folgore e Incursori) o verso la banda di Damiano Bechis, un ex carabiniere datosi alle rapine e ucciso nel 1992 durante uno scontro con la polizia.
In parallelo c’è poi la pista della malavita, da cui arriveranno gli uomini condannati a decine al posto dei Savi. Per dare maggior vigore a questa pista, mentre a Bologna arriva Gianni De Gennaro, ai tempi allo Sco, salta fuori di tutto: assegni di Cesena ritrovati a Catania; titoli romagnoli rinvenuti a Messina; la patente del direttore di una banca di Casalecchio ricomparsa al Pilastro; un biglietto di Catania (su cui c’è un’impronta di Pietro Gugliotta) lasciato nella Y10 usata per una rapina a Zola.
Inoltre dopo le incursioni della Uno bianca non è raro che giungano pattuglie con gli stessi agenti, tra cui Gugliotta e Luca Vallicelli. E la Criminalpol si inserisce raccogliendo spunti investigativi poi perduti: accade quando i carabinieri di Pesaro arrivano in anticipo di due anni sugli arresti ad Alberto Savi. Dopo il duplice omicidio di via Volturno, in cui muoiono l’armiera Lucia Ansaloni e l’ex carabiniere Pietro Capolungo, viene tracciato un identikit molto somigliante a Roberto Savi, ma nessuno lo nota, a eccezione del marito della donna che lo dice senza che nessuno gli dia ascolto.
C’è poi la storia dell’infedele brigadiere Domenico Macauda, che costruì false indagini su due colpi della Uno bianca: l’assassinio di una guardia giurata a Casalecchio di Reno il 19 febbraio 1988 e il duplice omicidio dei carabinieri a Castelmaggiore il 20 aprile seguente. Inoltre compare anche un personaggio noto in ambito terroristico: è Francesco Sgrò, depistatore dell’Italicus (4 agosto 1974) che stavolta alimenta la pista della criminalità organizzata.
Una vicenda «soggettivamente terroristica»
Ma i componenti della banda erano davvero semplici banditi assetati di denaro, come stabilito in sede di giudizio, anche se assaltavano nomadi e carabinieri, depistavano direttamente e beneficiavano di altri inaspettati e provvidenziali depistatori? «Atti a contenuto terroristico, ma privi di finalità eversiva», scriverà Antonio Di Pietro. Secondo il quale la violenza gratuita annullava la reazione delle vittime. Quest’ipotesi è stata chiamata «soggettivamente terroristica».
Eppure, come rilevato dalle parti civili, qualche elemento continua a far temere altro. Per esempio abbiamo un’area geografica contraddistinta politicamente e poi c’è la ripetitività degli obiettivi, come i supermercati delle cooperative rosse, e la collocazione ideologica dei Savi. Di estrazione neofascista, soprattutto Roberto Savi arriva a lambire Ordine Nero e personaggi finiti nel gorgo del terrorismo nero degli Anni Settanta, come Nestore Crocesi.
Questa complicata storia si conclude a fine ’94 con la polizia che fa piazza pulita attraverso l’ispettore Luciano Baglioni e il sovrintendente Pietro Costanza, entrambi in forza a Rimini. Finalmente le vittime dovrebbero aver giustizia e in parte è così. Ma solo in parte perché ancora oggi Rosanna Zecchi, presidentessa dell’associazione dei familiari, afferma: «Cosa c’è dietro la Uno bianca? chiesero a Fabio Savi. Rispose: la targa. Una targa, evidentemente, di cui ancora oggi le vittime non leggono bene i numeri». E nemmeno parole di perdono da parte degli assassini.
(Questo articolo è stato pubblicato sul numero di ottobre 2009 del mensile La voce delle voci)