Del libro La questione immorale – Perché la politica vuole controllare la magistratura di Bruno Tinti avrei voluto scriverne già da un po’: letto tutto d’un fiato in un’andata e ritorno ferroviaria, illustra in termini semplici e appassiona(n)ti gli obiettivi verso cui puntano le varie riforme e riformette delle giustizia. Solo per fare qualche esempio (alcune di queste voci c’è da scommettere che non risulteranno nuove): separazione delle carriere, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione giudiziaria, soppressione delle sezioni di pg presso le procure, rivalsa sul giudice che si vede cambiare una sentenza in un successivo grado di giudizio. E per chi volesse andare a vedere altri punti che si stanno portando avanti, provi a dare un’occhiata all’atto di sindacato ispettivo n° 1-00019 dello scorso 29 luglio.
Riccardo Lenzi però mi precede e oggi mi ha inviato un testo scritto da suo padre Norberto, magistrato bolognese che fu pretore fino a quando questa funzione è stata soppressa (questa una delle sue sentenze celebri). Le fitte righe che seguono, dunque, sono state scritte da lui per la presentazione del libro di Tinti a Fano, lo scorso 27 aprile. E meritano di essere lette perché, al di là delle considerazioni strettamente legate all’evento a cui Lenzi partecipava, rendono bene il modo in cui la politica (o forse soprattutto certi uomini politici) condiziona il dibattito su un tema così delicato.
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Non so perché mentre leggevo il libro di Tinti mi è venuto in mente Hegel quando diceva che ciò che è reale è razionale. Teoria discutibile, criticata anche perché dicono che ha posto le basi del nazismo. Non so se questo sia vero ma so che il libro di Tinti dimostra che è sbagliata, perché la realtà (il reale) da lui descritta è assolutamente irrazionale, di una irrazionalità voluta, che viene perseguita con rigore scientifico, a volte per ragion di stato, a volte per ragion di partito, a volte perché un uomo solo al comando vuole piegare l’interesse di tutti al suo.
Il quadro complessivo del sistema giustizia descritto da Tinti è desolante perché non prevede una via di uscita, anzi la esclude motivatamente. Le uniche note un po’ stonate del libro, non in linea con il suo pessimismo cosmico, si trovano all’inizio.
Ci ricorda Tinti come, prima che entrassero in vigore le grandi Costituzioni democratiche che ponevano limiti anche al potere di chi governa, una legge esisteva comunque. Solo che veniva emanata esclusivamente per favorire il Faraone e i suoi amici e non per tutelare il popolo. Ma siamo sicuri che le cose siano davvero cambiate in modo così radicale? Sicuri che non abbiamo avuto un regresso e che attorno a noi non aleggi lo spettro di nuovi Faraoni? Io, ad esempio, ne ho in mente uno che dispone già di un suo mausoleo sotterraneo. L’unica sensibile differenza è che questo ha cominciato a farsi imbalsamare da vivo.
Dice ancora Tinti che già nel 1215 Giovanni Senza Terra si impegnò a non imprigionare nessuno senza un regolare processo e che tale indefettibile principio di civiltà venne accolto in tutte le Costituzioni. Questo è vero, ma solo pochi anni fa nel centro di Milano, nella città che fu di Beccaria, un uomo, tale Abu Omar, è stato sequestrato da agenti della CIA, coadiuvati da uomini dei nostri Servizi, per essere trasportato all’estero e torturato.
Io non so, e nessuno ancora oggi lo sa, se quell’uomo si sia macchiato di gravi reati, ma non mi pare che questo sia il modo previsto dalla Costituzione per accertarlo. Mi pare che siamo ben al di là del tanto vituperato giustizialismo, né mi pare corretto che i nostri governi abbiano opposto il segreto di Stato ai magistrati di Milano che indagano sul fatto.
È di questi giorni la notizia che un Presidente abbronzato ha finalmente stigmatizzato questi orrori e non so di quale colore dovrà essere un Presidente che, dopo aver condannato le torture, condanni anche i torturatori.
Trovo invece del tutto realistica la descrizione che Tinti fa del processo penale: sembra di vedere una specie di insetto, imprigionato in una tela di ragno di norme procedurali, che si dibatte e cerca di uscirne trovando però, le poche volte che ci riesce, la ghigliottina della prescrizione.
In tanti convegni ci hanno spiegato come il nostro processo non funziona. Tinti ci spiega anche perché non funziona e la sua risposta, che io condivido assolutamente, è perché si vuole che sia così.
La origine di tutto questo io la rinvengo nel principio, ovviamente non enunciato, della irresponsabilità della politica, dei Faraoni di destra e di sinistra e dei loro amici.
Ormai da molti anni quando emerge un comportamento scorretto di un amministratore sentiamo dire che non vi è nulla di penalmente rilevante, confondendo in modo inammissibile il codice penale con l’etica politica (perché un comportamento che non costituisce reato può essere comunque segno di immoralità, di nepotismo, di inettitudine o di altri connotati negativi che impongono l’allontanamento dalla gestione della cosa pubblica).
Se tale prima difesa appare improponibile perché i fatti sono troppo gravi ed evidenti si sospende il giudizio delegando alla magistratura l’accertamento e lasciando intanto ciascuno al suo posto. Debbo dire che trovo piuttosto curioso che il mondo politico voglia affidare il giudizio sulla onorabilità dei suoi membri proprio a quella magistratura che lo stesso mondo non perde occasione di vituperare ogni giorno. Poi, ovviamente, capisco perché. Si fida nei tempi della giustizia, che vengono appositamente allungati, e in quelli della prescrizione che viene opportunamente accorciata. Per inciso trovo assolutamente inaccettabile che chi è investito di cariche pubbliche si acconci a fruire della prescrizione anziché rinunciarvi, affrontare il processo e pretendere che la sua innocenza venga riconosciuta. Ma il cattivo esempio viene da molto in alto.
Questa delega impropria alla magistratura viene poi sfacciatamente tacciata di supplenza proprio da chi gliela ha conferita. Ma, a parte il fatto che i supplenti di solito vengono chiamati a causa dell’assenteismo dei professori, in questo caso, quando si tratta dell’esercizio della giurisdizione, noi non siamo supplenti ma titolari esclusivi della cattedra che ci assegna la Costituzione.
Quindi noi questa delega la respingiamo perché preferiremmo molto processare politici che sono già stati allontanati, anziché trovarci di fronte politici che vengono difesi dal sistema al di là di ogni decenza. La eventuale sanzione giudiziaria sarebbe sicuramente meno dirompente di una precedente sanzione politica.
Ma siccome anche in un sistema così ben congegnato può qualche volta accadere che la responsabilità venga accertata, allora si procede alla sistematica, ossessiva, delegittimazione preventiva dei giudici.
A prescindere dalle reminiscenze infantili del nostro Presidente del Consiglio, che ricorda come il papà gli dicesse che se uno nasceva disposto a fare il male, avrebbe fatto il delinquente, il pubblico ministero o il dentista (categoria quest’ultima riscattata dalla anestesia) e dalla osservazione che un bravo papà gli doveva anche far presente che qualche male può derivare anche da chi fa la guerra o opera una discriminazione razziale, assume lavoratori in nero o risparmia sui materiali edilizi nelle zone sismiche (perché anche in Abruzzo sono morte 300 persone senza anestesia), sta di fatto che buona parte della classe politica ha lasciato passare l’assurdo messaggio per cui se un magistrato indaga su un politico è necessariamente politicizzato. E nessuno si pone la domanda se non sia stato invece proprio il politico in quel caso ad essersi, se così si potesse dire, delinquentizzato.
Eppure se si parla in astratto, senza fare nomi, tutti, politici compresi, concordano sulla realtà storica di collusioni tra mafia e politica, di accordi criminosi nella spartizione del denaro pubblico, di corruzione diffusa nella pubblica amministrazione, etc.
Ma ogni volta che un magistrato indaga su uno di loro tutti protestano che il bersaglio è sbagliato, che quell’uomo è perseguitato ingiustamente, che il giudice fa così per favorire qualcuno o addirittura su mandato di qualcun altro.
Ma, anche volendo immaginare la Giustizia cieca come la Fortuna, è possibile che non ci si prenda mai nemmeno per caso?
C’è un uomo politico che si chiama Cosentino, accusato da diversi pentiti ritenuti attendibili di essere da lungo tempo contiguo alla camorra.
Capisco che non sia una novità clamorosa dopo tutto quello che abbiamo saputo sugli amici dei mafiosi, però questo signore è attualmente sottosegretario al tesoro, cioè si sta occupando del modo migliore per uscire da questa crisi economica.
Sono state richieste le sue dimissioni ma naturalmente è ancora al suo posto grazie alla convergenza dei voti del PD con quelli del centro-destra. Anche questa non è una novità: la reiezione da parte dei parlamentari di ogni richiesta della magistratura nei confronti di uno di loro è ormai prassi costante.
Una volta per evitare l’arresto dell’onorevole Previti che stava inquinando le prove qualcuno disse che l’arresto non era necessario perché le prove erano così schiaccianti da non essere più suscettibili di inquinamento. Poi però ci vollero altri 5 anni per arrivare ad una condanna che ci è costata anche un indulto di 3 anni per tutti.
Ma la cosa più grave è che la motivazione della reiezione riguarda la consistenza delle prove a carico, che non appaiono mai sufficienti. Questo è un abuso istituzionale perché la valutazione delle prove spetta solo al potere giudiziario da alcuni secoli, da quando Montesquieu teorizzò la divisione dei poteri, poi recepita nelle Costituzioni.
Noi, ad esempio, non ci siamo mai sognati di rifiutarci di applicare una legge perché ritenevamo che fosse sbagliata. E sì che ce ne sarebbero state di occasioni, come ci ha fatto capire anche Tinti.
Il potere e il dovere del Parlamento si deve limitare alla verifica della inesistenza di quello che viene chiamato il fumus persecutionis, cioè se quel magistrato ce l’ha con quel politico per motivi personali suoi che normalmente prescindono e antecedono il risultato delle indagini. Si deve verificare cioè se tra i due c’è antipatia in senso etimologico.
Si suol dire che l’antipatia è questione di pelle o, se viene interiorizzata nel profondo, si parla di antipatia viscerale. Qui invece siamo di fronte ad una antipatia di tipo nuovo: l’antipatia documentale. I due non si conoscono, non si sono mai parlati, ma il giudice, man mano che legge gli atti, comincia ad innervosirsi, a provare un livore ingiustificato e decide di perseguitare il parlamentare proprio per questo suo inspiegabile ed esecrabile sentimento e non per gli elementi di riscontro delle accuse.
Quindi la malafede del giudice giustifica la reiezione della sua richiesta e l’opinione pubblica è già stata sufficientemente plasmata per adeguarsi a questo scandalo senza batter ciglio.
In questo modo si colpisce il magistrato nel valore più alto della sua funzione, che è quello della imparzialità che, come ha detto Calamandrei, si può raggiungere solo quando il giudice non ha nulla da sperare e nulla da temere.
Guardate che questo è pericoloso, non tanto per il magistrato, ma per la società in generale. Durante la vituperata Prima Repubblica, quando c’era ancora un minimo di senso dello Stato, la politica controllava la nomina dei capi degli uffici, magari corrompeva qualche magistrato o, al limite, lo lasciava uccidere, ma mai si sarebbe sognata di delegittimare la intera istituzione giudiziaria. Perché questa è uno dei pilastri dello Stato e se viene a mancare possono crollare tutte le istituzioni democratiche, si lascierebbe il paese in mano all’arbitrio di pochi, di potentati senza controllo in guerra tra loro per tornaconti personali.
Di recente ho visto citato un brano di un discorso di Roosevelt al Congresso degli Stati Uniti il 29 aprile 1938. “la libertà di una democrazia non è salda se un popolo tollera la crescita di un potere privato al punto che esso diventa più forte dello stesso Stato democratico. Questo, in essenza, è fascismo”.
Un pentito della ‘ndrangheta ha rivelato che dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio la mafia aveva richiesto ai colleghi calabresi di associarsi nella guerra allo Stato. La risposta fu che ritenevano più conveniente della guerra la delegittimazione dei magistrati scomodi. La mafia dopo poco si adeguò.
Spiace constatare che tale metodo si è generalizzato. Per i singoli magistrati forse la delegittimazione è un po’ meglio della morte, ma per lo Stato certamente no.
La informazione, soprattutto quella televisiva, quella che Chomsky chiama “la fabbrica del consenso”, non aiuta certo a comprendere questa situazione e la sua gravità. A volte, se penso al livello della opinione pubblica di 20 anni fa, ho l’impressione che la TV abbia contribuito ad operare una specie di mutazione genetica che va in senso contrario agli studi darwiniani: stiamo retrocedendo rapidamente verso forme di vita inferiori.
Sta ad ognuno di noi cercare di fermare questa deriva. Il libro di Tinti, le sue denuncie, la sua consapevolezza di una volontà politica contraria, ci inducono a pensare che una seria riforma della giustizia sia oggi una utopia.
Ricordate però cosa scriveva Eduardo Galeano quando si domandava cosa fosse una utopia.
L’utopia è come l’orizzonte; se muovi un passo verso l’orizzonte questo si allontana di un passo; se muovi dieci passi si allontana di dieci passi. A cosa serve allora inseguire una utopia? Serve per continuare a camminare”.
grazie per le tue segnalazione…è sicuramente un libro da leggere.A presto Antonella
Il libro di Tinti risponde a quelle domande che gli italiani dovrebbero porsi. La riforma della giustizia, come la chiama il Governo, è già iniziata, anche se l’attenzione è spostata sulle proposte più eclatanti, come quella sulle intercettazioni. Va analizzato, però, anche l’indulto voluto dal centrosinistra, i cui effetti disastrosi non sono conosciuti dai più. Un libro che va letto