Il testo che segue si intitola Seattle, l’anarchismo e i mass media ed è l’introduzione del libro Gramsci è morto – Dall’egemonia all’affinità del sociologo Richard J.F. Day (Eleuthera, 2008, traduzione di Roberto Ambrosoli) attraverso cui l’autore “esamina a livello globale – con un occhio attento al «laboratorio Italia» – le tante e originali forme di organizzazione autonoma, dando una nuova lettura dell’anarchismo”.
Per la maggior parte dei nordamericani, le proteste anti-OMC di Seattle, alla fine degli anni Novanta, hanno segnato il punto in cui una nuova militanza è prepotentemente emersa alla superficie di una struttura politica liberal-democratica altrimenti serena. A quel tempo vivevo a Vancouver, British Columbia, e all’ultimo momento avevo deciso di non andare a Seattle. Una delle solite proteste, mi dicevo, e per di più avrei dovuto fare cinque ore di autobus, tra andare e tornare. Comunque, a un certo punto della giornata ho acceso la televisione, tanto per vedere cosa stava succedendo, e sono rimasto affascinato e sorpreso dalle ormai famose immagini dei giganteschi cortei, dei blocchi stradali, delle squadre anti-sommossa sparse dappertutto, delle nubi di gas lacrimogeno che annebbiavano la scena. Su quello che sembrava lo spettacolo di un altro mondo si è sentita la voce di un reporter locale che si trovava lì in strada:
Inviato: «Qui ci sono delle persone che vanno avanti e indietro… beh, non proprio avanti e indietro, sembrano organizzati. Non so chi sono, sono tutti vestiti di nero, con cappucci neri e bandiere nere… bandiere nere e basta, senza niente sopra».
Presentatore: «Bandiere senza niente sopra?».
Inviato: «Proprio così, tutte nere».
I Black Bloc, con la loro tattica, avevano fatto la loro prima comparsa sul palcoscenico dei mass media nordamericani. Dopo un po’, le emittenti televisive di Seattle hanno pensato di aver finalmente capito: si trattava di «anarchici», qualunque fosse il significato di quel termine. Nessuno ha cercato di averne conferma dagli stessi dimostranti mascherati, che apparivano troppo pericolosi, e nonostante partecipassero a una protesta pubblica sembrava non avessero alcuna intenzione di farsi riconoscere.
Periodo di lutto
Man mano che altri reporter, insieme a commentatori politici, funzionari di polizia e professori di vario genere, hanno cominciato a soppesare cosa fosse effettivamente accaduto a Seattle, lo spazio lasciato vuoto da quelle bandiere nere è stato riempito ricorrendo a stereotipi, pregiudizi e frammenti di conoscenza provenienti dal secolo passato. Un servizio apparso sul «Time» il 13 dicembre 1999 conteneva una sezione su La violenza, sottotitolato Come degli anarchici organizzati abbiano portato il caos a Seattle. Dopo aver bollato i dimostranti come «una massa scomposta di migliaia di militanti, per lo più giovanissimi, affiliati ad alcune centinaia di gruppuscoli che si riconoscono in qualche dozzina di critiche, per lo più socialiste, della macchina capitalista», l’articolo provocava e intimoriva i lettori con immagini di A cerchiate e saccheggi, oltre alla foto di un tizio non identificato, senza alcun segno di riconoscimento, che saltava dentro una finestra rotta. La didascalia diceva «Andiamo a prendere il caffè: un cliente anarchico a uno Starbucks di Seattle».
Contestare queste rappresentazioni, fuorvianti ma molto funzionali, può essere visto come un problema minore, dato che il cosiddetto «movimento anti-globalizzazione» riceve ormai meno attenzione da parte dei media. La protesta di Seattle è stata seguita da altre importanti manifestazioni a Washington, Genova, Praga e Quebec City, tuttavia la polizia delle «democrazie liberali avanzate» sembra essersi accorta che compiere arresti incostituzionali e chiudere le frontiere a chiunque indossi una bandana è sufficiente per mettere a tacere quanto una volta era considerato dissenso legittimo.
In effetti la risposta all’11 settembre, unita al proseguire della guerra in Iraq e Afghanistan, ha portato un colpo mortale alle espressioni più visibili della resistenza al neo-liberalismo nel Nord globale. Ciò potrebbe significare che stiamo entrando in un periodo di lutto; ma a parte il fatto che negli ultimi anni sono stati fatti progressi, molti non lamentano l’abbandono di questa fase della lotta. Pur avendo contribuito a mettere in evidenza il lato oscuro del nuovo ordine mondiale, queste proteste in occasione di incontri al vertice riescono al massimo, quando hanno qualche effetto, a bloccare temporaneamente o riformare leggermente le strutture esistenti. Anche se servono a costruire competenze e strutture che prefigurano alternative, non sono in grado di affrontare i problemi fondamentali legati all’espansione e al consolidamento del sistema razzista, eterosessista, degli Stati-nazione neo-liberali/capitalisti. Inoltre, come è stato rilevato frequentemente negli anni recenti, la protesta ai summit è una pratica elitaria che sottrae tempo ed energia alle comunità locali (Pastor e LoPresti 2004: 29; Marco 2000).
I miei personali dubbi circa l’efficacia di questo modello di protesta contro gli incontri al vertice si sono consolidati nel luglio 2003, quando ho partecipato alla manifestazione contro l’Omc a Montreal. Le squadre anti-sommossa hanno contrassegnato la zona verde con un nastro rosso, arrestando chiunque rifiutasse di lasciare l’area. Quando mi sono avvicinato alla linea, un tipo particolarmente antipatico che stava a gambe larghe nella sua tenuta anti-sommossa mi guardava battendo lo sfollagente sul palmo della mano. Io ho tirato fuori il mio libretto di appunti e la penna e ho ripetuto il suo gesto.
Questo libro può essere pensato come una versione estesa di quell’incontro: ora che gli sbirri dei paesi del G8 non si fanno più sorprendere dalle tattiche di azione diretta, ora che i loro dirigenti politici hanno deciso di adottare le tattiche repressive tipiche di quelle che chiamano ipocritamente «le dittature del Terzo mondo», come continuerà la lotta contro il capitale globalizzante e i molteplici sistemi di dominio e sfruttamento cui è inestricabilmente legato? Tra le popolazioni indigene e il Sud globale la risposta sembra chiara: continuerà come è sempre continuata per centinaia di anni, con una molteplicità di forme, comprese ovviamente quelle della protesta violenta di massa che tanto ha scioccato la sensibilità del G8 quando è stata vista a Genova e non a Giakarta. Se li consideriamo un semplice scontro violento tra dimostranti e polizia, i fatti di Seattle hanno di speciale soltanto che sono accaduti in quella città. Ma è un punto di vista un po’ troppo semplicistico. Anche se il ciclo delle proteste di massa coordinate nel Nord globale si è esaurito, le strutture ideologiche e organizzative che le hanno originate non sono affatto scomparse. È verso queste correnti più profonde, più ampie e stabili, che dobbiamo volgere la nostra attenzione se vogliamo capire da dove è venuto il «movimento anti-globalizzazione», cosa ha fatto e dove potrebbe andare.
Definizione di «movimento»
Prima di cominciare questa ricerca, però, ci sono alcuni temi preliminari da affrontare. Uno di essi è decidere se sia corretto interpretare le nuove forme di azione che stanno emergendo contro l’egemonia neo-liberale come movimenti contro la globalizzazione in quanto tale. Molti commentatori e militanti hanno sostenuto (e io tendo a essere d’accordo) che procedendo in questo modo si rischia di cadere in una trappola analitica (Buchanan 2002; N. Klein 2001; Milstein 2002). Quindi, come dobbiamo considerare queste lotte che continuamente sorgono e cessano, come dobbiamo discuterle senza fare violenza a ciò che vogliono ottenere? E poi, cosa effettivamente vogliono ottenere (e cosa vogliono abolire), se è tanto difficile incapsularle in un singolo termine? Sono domande cui non si può rispondere in modo semplice e rapido, ma bisogna pur stabilire almeno qualche punto di partenza provvisorio. A tal fine, dico che da un lato il termine «anti-globalizzazione» implica la considerazione di temi importanti come capitalismo, colonialismo e responsabilità democratica, ma dall’altro tali temi non coprono l’intero spettro delle resistenze al nuovo ordine mondiale. Le vedo piuttosto come particolari siti di condensazione all’interno del campo ben più complesso dell’attivismo radicale contemporaneo.
Per «contemporaneo» intendo fondamentalmente compreso tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila, ma con radici che risalgono ai nuovi movimenti sociali degli anni Sessanta (femminismo, movimento usa per i diritti civili, Red Power, anti-colonialismo, lotte gay-lesbiche) e anche alla «vecchia» tradizione del socialismo marxista e anarchico. Per «attivismo radicale» intendo il tentativo cosciente di modificare, impedire, distruggere le strutture, i processi, le pratiche e le identità dominanti, o costruire alternative a esse. Mio obiettivo sono quelle lotte che mirano a cambiamenti alla radice, che si occupano non solo dei contenuti delle attuali forme di dominio e sfruttamento, ma anche delle forme che danno loro origine. Così, ad esempio, piuttosto che chiedere parità salariale per donne e uomini, il femminismo radicale agisce per l’eliminazione del patriarcato in tutti i suoi aspetti; piuttosto che volere l’auto-governo nell’ambito di uno Stato coloniale, la politica indigena radicale mette in discussione il concetto europeo di sovranità su cui è basato il sistema statuale.
La questione dell’egemonia
L’attivismo radicale contemporaneo, quindi, spinge oltre i limiti e le possibilità del riformismo liberale, ma non scredita i tentativi di modificare lo status quo (nessuno può essere sicuro del valore di strategie o tattiche senza far riferimento a particolari contesti storici, sociali e politici). Al tempo stesso, però, non propone un ritorno alla teoria e pratica della Vecchia sinistra del diciannovesimo e del primo ventesimo secolo, e neppure della Nuova sinistra degli anni Sessanta-Ottanta. Quanto sta accadendo qui è qualcosa di nuovo, di diverso, che a volte cerco di indicare usando l’espressione nuovissimi movimenti sociali, per individuare le correnti che più mi interessano.
Capire per e contro cosa questi movimenti si battono è un altro sforzo necessario, anche se pericoloso. C’è molto disaccordo su questo tema dentro e tra le comunità di attivisti, né gli studiosi hanno avuto maggior fortuna nel mettersi d’accordo tra loro. Con il diffuso entusiasmo generato dal magnum opus di Michael Hardt e Antonio Negri (2000), il termine «Impero» circola sempre più, almeno negli ambienti accademici, come descrizione sintetica del nemico comune. Il loro libro omonimo ha il merito di analizzare non solo le strutture e i processi del capitale globalizzante, ma anche il sistema di Stati e Superstati, e le società di controllo che continuano a fiorire, intimamente connesse con i primi.
Tuttavia, questo testo piuttosto esteso non tratta in modo sistematico i problemi di genere e dedica al razzismo solo una sezione di sette pagine, sicché è stato criticato come eurocentrico, androcentrico e forse classe-centrico (Mishra 2001; Moore 2001; Quinby 2003).
Sebbene Hardt e Negri abbiano promesso di occuparsi dettagliatamente di questi temi in un’opera successiva, sempre fatta insieme, il loro concetto di moltitudine come proletariato globale sembra molto difficile da riconciliare con la critica post-marxista della politica centrata sulle lotte operaie, oltre che con l’appello del femminismo anti-razzista a decolonizzare la teoria e la pratica della solidarietà attraverso tutti gli assi dell’oppressione (Arat Koc 2002; Mohanty 2003). Inoltre, Impero è stato accolto con ben minore entusiasmo nell’ambito dei militanti, molti dei quali non apprezzano la sua prosa difficile e la sua implicita dipendenza da un complesso di concetti poco familiari, sviluppati dai marxisti italiani dell’Autonomia (Flood 2002; los Ricos 2002).
Per questi motivi sono riluttante a usare il termine «Impero» nel mio lavoro, ma sono anche riluttante a ricorrere a neologismi, dal momento che ciò non risolverebbe il problema fondamentale, cioè che non esiste un unico nemico contro cui combattono i nuovissimi movimenti sociali. C’è invece una gran varietà di lotte, ognuna delle quali deve essere considerata nella sua particolarità. Ciononostante, la presenza del capitale globalizzante e l’intensificazione delle società di controllo fanno sì che tutte si verifichino sempre più in un contesto comune, anche se tale contesto, o elementi di esso, non sono esplicitamente identificati come ciò contro cui le lotte sono condotte. Così, poiché non voglio totalizzare o ridurre la diversità delle lotte contemporanee, mi riferirò al progetto neo-liberale per indicare il contesto comune all’interno del quale esse si verificano. Il progetto neo-liberale comprende il processo di globalizzazione del capitale e l’intensificazione delle società di controllo; esso poggia inoltre, perpetuandole, su modifiche nell’organizzazione del sistema statale, attraverso accordi a livello regionale come la North American Free Trade Area (Nafta) e la costruzione di Superstati, come l’Unione Europea. In altre parole, do per scontato che non possiamo capire il dominio statale al di fuori dello sfruttamento capitalista, né possiamo capire entrambi questi fenomeni se non teniamo presenti le società di controllo.
Oppressione interconnessa
Si deve anche notare che il dominio statale e lo sfruttamento capitalista sarebbero impossibili se non fosse che le società neo-liberali sono divise secondo molteplici linee di disuguaglianza, come razza, genere, sessualità, abilità, età, regione (sia a livello globale che all’interno degli Stati-nazione) e dominio della natura. Le popolazioni devono essere ordinate secondo gerarchie apparentemente «naturali» se si vuole riconciliare la distribuzione differenziale dei beni sociali creata dal capitalismo con i valori sposati dalla politica liberale. Siccome tali gerarchie devono essere rafforzate man mano che il liberalismo si trasforma in neo-liberalismo e aumentano le disuguaglianze, abbiamo assistito a una recrudescenza del conservatorismo sociale e a una reazione violenta alle modificazioni progressiste realizzate durante l’epoca d’oro del Welfare State keynesiano. Quando parlo del progetto neo-liberale, quindi, intendo descrivere una rete complessa di attività e istituzioni che hanno l’effetto di perpetuare e moltiplicare varie forme di oppressione interconnesse (Collins 1991; Hooks 1984). Queste fanno sì che i «popoli» possano essere divisi e gestiti, mentre la nostra vita viene sempre più condizionata dall’accumulazione capitalistica e dal controllo razional-burocratico (Foucault 1991).
Il concetto di progetto neo-liberale conduce direttamente al problema dell’egemonia. Più avanti, avrò parecchio da dire circa i vari significati che questo termine ha assunto nel corso del tempo. Per il momento, basterà dire che esso descrive il processo attraverso cui diverse fazioni lottano tra loro per importanza, identità e potere politico. Per usare le parole di Antonio Gramsci, figura chiave di questa linea di pensiero, un gruppo sociale che aspira all’egemonia cerca di «dominare i gruppi antagonisti, tendendo a ‘liquidarli’ o soggiogarli anche con la forza delle armi», oltre che a «guidare» i gruppi affini o alleati (Gramsci 1971: 57). L’egemonia è una lotta contemporaneamente coercitiva e consensuale per la supremazia, che i vari marxismi del diciannovesimo e ventesimo secolo vedevano come limitata al contesto di un particolare Stato-nazione, ma ormai è ampiamente riconosciuta a livello globale. È fondamentale notare che essa è un processo, non una realizzazione, nel senso che le azioni del gruppo dominante sono sempre aperte alla contestazione. Tuttavia, nella maggior parte delle società basate sullo Stato-nazione, il più delle volte è osservabile un equilibrio relativamente stabile, uno stato descritto correttamente come di non-crisi, punteggiato di crisi che conducono al raggiungimento di un nuovo equilibrio relativo.
Ad esempio, il capitalismo liberale nei paesi supersviluppati della metà del ventesimo secolo operava secondo un modello di rapporti egemonici con la classe operaia, noto come Welfare State keynesiano. I sindacati potevano esistere e combattere per il miglioramento della condizione operaia, in cambio del quale le grandi industrie ricevevano la garanzia che gli scioperi si sarebbero svolti unicamente secondo modalità rituali e strettamente controllate. Lo Stato agiva come intermediario tra questi due campi ostili, prendendo denaro dalle industrie sotto forma di tasse e fornendo servizi pubblici sia a esse che ai lavoratori. Questo sistema relativamente stabile è rimasto in piedi fino agli anni Settanta, quando ha cominciato a essere sostituito dal modello neo-liberale, attraverso cui il capitalismo persegue maggiori profitti liberandosi dalle pastoie dell’intervento statale e della resistenza operaia. Privatizzazione, deregolamentazione, leggi sul «diritto al lavoro» (anti-sindacali) e adorazione fanatica del «libero mercato» sono diventate de rigueur. Fuori delle mura che proteggono il privilegio dei G8, i governi dei paesi del Sud globale sono stati spinti a «programmi di adeguamento strutturale» che avevano lo stesso significato che nel Nord, ma maggiore intensità e risultati assai più disastrosi. Insieme a nuove istituzioni nazionali e internazionali è arrivato il nuovo buon senso: chi è oppresso merita la propria oppressione; tutti (tranne i ricchi) devono lavorare di più per meno; le multinazionali più sono grandi meglio è; meno lo Stato interviene nell’economia meglio è (tranne quando viene in aiuto delle multinazionali fallite, dando loro infrastrutture gratis e il diritto di inquinare a piacimento). E così via.
Il passaggio dal modello keynesiano a quello neo-liberale ha comportato il riallineamento di alcune importanti forze storiche. Imprenditori, intellettuali e giornalisti neo-liberali si sono dati da fare per invertire il senso del cambiamento sociale, e ci sono pienamente riusciti, in tutto il mondo. Hanno «vinto il cuore delle menti» dei ceti medi del Nord globale e delle élite del Sud globale, mostrando la propria volontà di dominare (e in qualche caso liquidare) i gruppi antagonisti con la forza delle armi (attivisti sindacali in Colombia, talebani in Afghanistan, baathisti in Iraq). Il neo-liberalismo ha cercato l’egemonia e la sta ottenendo a una scala che fa apparire gli imperi romano, cinese o atzeco come delle minuzie. Questo è il fatto che dobbiamo affrontare: la globalizzazione capitalista non solo esiste, ma è il risultato di una pianificazione deliberata da parte di élite finanziarie e governative globali, che appunto per questo scopo si incontrano con sempre maggiore frequenza. L’unico punto che valga la pena discutere, in questa situazione, è come possiamo meglio combatterla.
I nuovissimi movimenti sociali
Una risposta facile è cercare di stabilire una contro-egemonia, spostare indietro, il più possibile, l’equilibrio storico a favore degli oppressi. Ciò potrebbe significare la difesa del Welfare State nel Nord globale o la continuazione della lotta per goderne per la prima volta i benefici nel Sud globale. Oppure potrebbe significare il tentativo di istituire un tipo diverso di egemonia globale, un’egemonia operante «dal basso» invece che «dall’alto». Ma ragionare in questo modo significa rimanere all’interno della logica del neo-liberalismo, cioè accettare quanto io chiamo l’egemonia dell’egemonia. Con questa espressione intendo riferirmi all’idea che un reale cambiamento sociale possa essere raggiunto solo simultaneamente e en masse, nell’intero spazio nazionale o sovra-nazionale. I rivoluzionari marxisti hanno seguito la logica dell’egemonia cercando di rovesciare il rapporto tra dominati e dominatori attraverso la conquista del potere statale. Il riformismo liberale e post-marxista mostra la stessa logica, sebbene in una versione diversa: non cerca il potere statale, cerca di influenzarne il funzionamento attraverso processi di cooperazione pluralista e conflitto (Laclau e Mouffe 1985; Kymlika 1995). L’aspetto più interessante della militanza contemporanea è che alcuni gruppi si sono sottratti a questa trappola agendo in modo non-egemonico invece che contro-egemonico. Perseguono un cambiamento radicale ma non attraverso il potere statale (conquistato o influenzato che sia) e così facendo mettono in discussione la logica dell’egemonia nel suo stesso fondamento.
Da questo punto di vista, i più interessanti dei nuovissimi movimenti sociali non sarebbero nemmeno definiti movimenti dai sociologi. Quindi c’è una certa ironia nell’uso che faccio di questo termine, un’ironia tesa a sottolineare lo spostamento dai «movimenti» egemonicamente orientati a strategie e tattiche senza etichetta, come quelle di Independent Media Centre (IMC, Indymedia), Affinity Group, Reclaim the Streets (RTS), o dei centri sociali e dei vari Black/Pink/Yellow Bloc.
Al tempo stesso, però, ci sono tendenze che corrispondono meglio alla definizione sociologica di movimento sociale, le quali mostrano anche ciò che chiamo affinità per l’affinità, cioè per rapporti non-universalizzanti, non-gerarchici, non-coercitivi, basati sull’aiuto reciproco e sul comune impegno etico. Ne sono esempio alcune comunità indigene americane (Mohawks, Zapatisti), australiane o neozelandesi (il Governo provvisorio aborigeno), così come alcune tendenze del femminismo transnazionale e della teoria queer. La tesi principale di questo libro è che tutti questi gruppi e movimenti, strategie e tattiche, sono utili al fine di capire (e portare avanti) l’attuale sostituzione dell’egemonia dell’egemonia con l’affinità per l’affinità.
Interessantissimo.
Devo approfondire, grazie della segnalazione.