Nei giorni scorsi si è tornati a parlare della banda della Uno bianca i cui capi, Fabio e Roberto Savi, malgrado la condanna all’ergastolo, potrebbero beneficiare dell’indulto. La storia viene ricostruita in questi articoli, pubblicati tutti tra il 4 e il 5 aprile scorsi dal quotidiano Corriere di Bologna:
- Indulto a Roberto Savi, si apre la partita
- Indulto ai Savi, l’ira dei familiari
- I pm: atto dovuto, ma restano dentro
Leggendo ciò che hanno pubblicato i giornali e parlandone con Riccardo Lenzi, abbiamo deciso di stendere un testo a quattro mani mettendo nero su bianco alcune considerazioni sulla vicenda. Ed ecco quanto abbiamo scritto, uscito oggi, sempre sul Corriere, nella pagina delle lettere.
Non ci è possibile dimenticare la risposta di Fabio Savi a chi gli chiese cosa ci fosse dietro la Uno bianca: “la targa e i fanali”, disse, con la consueta ed intollerabile arroganza.
Oggi, a pochi giorni dal ventesimo anniversario dell’eccidio alla Coop di Castelmaggiore (il 20 aprile 1988 la banda dei fratelli Savi uccise due giovani carabinieri: Umberto Erriu e Cataldo Stasi), veniamo a sapere che la Procura della Repubblica ha chiesto l’applicazione dell’indulto al capo di quella banda di criminali che per sette anni ha terrorizzato Bologna e l’Emilia-Romagna: Roberto Savi.
Alla preoccupazione per l’imminente scarcerazione di Pietro Gugliotta (anch’egli beneficiato dall’indulto approvato dal Parlamento il 29 luglio 2006) e per lo sconto di pena di cui ha già beneficiato Fabio Savi (il cui ergastolo è stato commutato in 27 anni di carcere), si aggiunge dunque la concreta possibilità che anche al più feroce e spietato tra questi ex poliziotti vengano concessi i benefici di legge.
Di fronte a questo scenario, alla vigilia delle elezioni politiche, la prima cosa che ci viene spontanea è chiedere al nostro Parlamento di scusarsi con gli italiani per avere approvato l’indulto: un provvedimento bipartisan che non ha minimamente intaccato (com’era ovvio) il problema del sovraffollamento delle carceri e, in compenso, ha aggravato la situazione della giustizia italiana, costringendo la magistratura a imbastire processi pur sapendo che finiranno in un vicolo cieco, facendo uscire dal carcere alcuni e consentendo ad altri di non entrarci. Tutto ciò ha ulteriormente intaccato la già scarsa fiducia degli italiani nel sistema giudiziario.
Ora toccherà alla Corte d’assise di Bologna pronunciarsi sul caso di Roberto Savi. Nel frattempo crediamo che la cittadinanza, le forze politiche e le istituzioni non possano tacere, né rimanere inerti. Il solo fatto che si possa prendere in considerazione uno sconto di pena per chi si è macchiato di crimini così efferati è inaccettabile. Tanto più per chi, a distanza di 14 anni dalla condanna, continua a mentire, affermando di aver ucciso “solo per denaro”. Roberto Savi dovrebbe spiegare, per esempio, quanti soldi fruttò l’agguato al campo nomadi della Bolognina del 23/12/1990.
I politici parlano volentieri di legalità e sicurezza, riferendosi spesso alla microcriminalità urbana piuttosto che alla criminalità organizzata, ma si focalizzano poco su quelle forme di criminalità che non possono essere logicamente ricondotte a nessuna di queste due categorie, come il terrorismo. Si discute molto di ingombranti mendicanti e di fastidiosi lavavetri, ipotizzando anche l’esistenza di un presunto racket. Di forme più complesse e grigie, invece, si parla e si scrive ampiamente solo quando ci scappa il morto.
Il crimine, come è noto, si combatte su due fronti: prevenzione e repressione. Una repressione efficace richiede buone leggi, buone indagini e più mezzi a disposizione delle forze dell’ordine e della magistratura. Per quanto riguarda la prevenzione, forse il primo strumento da adottare dovrebbe essere la diffusione, anche e soprattutto in politica, di un sentimento spesso rimosso: la vergogna.