Mancavano pochi giorni al suo trentacinquesimo compleanno quando il 12 febbraio 2004 venne trovato senza vita nella sua casa di Viterbo, città nella quale si era trasferito un paio d’anni prima per lavorare all’ospedale Belcolle. Attilio Manca, un urologo siciliano nato a San Donà di Piave ma trasferitosi da bambino con la famiglia a Barcellona Pozzo Di Gotto (Messina), venne ucciso da un mix di eroina, Tranquirit – uno psicofarmaco a base di diazepam – e alcol e, svolti i primi accertamenti, si parlò di overdose e suicidio.
Sulla vicenda oggi pende la terza richiesta di archiviazione da parte della procura di Viterbo. Richiesta a cui la famiglia si è opposta ancora una volta perché ritiene che di omicidio si tratti. E, nello specifico, che si tratti di omicidio di mafia, tanto che oggi Attilio Manca viene considerato una vittima non riconosciuta della criminalità organizzata. La tesi del suicidio, infatti, non sembra giustificare la fine di una promessa della medicina. L’urologo, malgrado la giovane età, era già noto per aver effettuato per primo in Italia interventi alla prostata in laparoscopia, tecnica appresa durante cicli di specializzazione all’estero. A Viterbo, poi, aveva un buon rapporto con colleghi e paramedici. Solo con il primario, Antonio Rizzotto, sembrava andare meno bene: Attilio lo considerava “autoritario, un gerarca”, ha detto la madre Angelina Gentile, tanto che voleva tornare a Roma.
Single, una vita brillante, una carriera già decollata, Attilio Manca non sembrava dunque avere alcun motivo per gettarsi nelle spire degli stupefacenti né per togliersi la vita. Solo nei suoi ultimi giorni è sembrato preoccupato, anche se il motivo rimane ignoto.
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