Omissis e il racconto dei fatti “tralasciati”

Standard
Spread the love

OmissisOggi a Bologna si inaugura la mostra Omissis, curata dalla gallerista Laura Ramoino e dallo storico dell’arte Giorgio Di Genova. L’idea che ha portato alla realizzazione dell’esposizione è quella della scomparsa dei fatti, dei nomi e degli eventi storici e qui è stata pubblicata la galleria di immagini delle opere d’arte realizzate su questo tema. Nel catalogo che accompagna la manifestazione, si trovano poi racconti e testi a proposito di alcuni dei fatti di cui sopra, scritti da Paolo Bolognesi (presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di Bologna del 2 agosto 1980), Stefano Bonaga, Daria Bonfietti (presidente dell’associazione parenti delle vittime della Strage di Ustica la senatrice), Simona Mammano, Maurizio Matrone e Nanni Menetti. Qui una descrizione più estesa di Omissis e di seguito il testo scritto sulla vicenda della banda della Uno bianca per il catalogo.

========

Uno bianca: le ombre su sette anni di terrore
Finché non si fa una distinzione tra quello che è avvenuto prima e quello che è avvenuto dopo, le idee non saranno mai chiare. Non è che il prima provochi e determini sempre il dopo, assolutamente no, però non si capisce come è nato il dopo se non si accerta l’esatto succedersi degli eventi. Poi ci sono le coincidenze che non sono mai da scartare […]. Una coincidenza è una coincidenza. Due coincidenze sono due coincidenze. Tre coincidenze sono un indizio.
Marco Nozza, Il Pistarolo

Pensare di poter raccontare qui per intero una vicenda come quella della Uno bianca è velleitario. Per due motivi. Da un lato, una storia che dura oltre sette anni – dall’ottobre del 1987 al novembre del 1994 – è sterminata, se si tiene conto dei numeri che quantitativamente la connotano. Vediamoli un attimo, questi numeri. Abbiamo una banda composta da sei persone. Cinque sono agenti di polizia in servizio tra la questura di Bologna e la Romagna e un sesto invece non appartiene alle forze dell’ordine, anche se avrebbe voluto: ci prova in gioventù a vestire una divisa, ma incassa un rifiuto a causa di un difetto di vista. Tre di questi sei individui sono fratelli: il vincolo di sangue, nel loro caso, si trasforma in condivisione di una carriera criminale che, con la complicità della parte restante del gruppo, li porta a colpire 103 volte, a uccidere ventiquattro persone e a ferirne 102. Per cosa? Poco più di due miliardi di lire che, tornando a una logica matematica bilanciata da una media aritmetica, si può tradurre così: 83 milioni per ogni vittima, poco più di 19 milioni per ogni azione e una cifra analoga per ogni ferito. Se ci aggiungiamo poi che, dei sei componenti della banda, mediamente erano in quattro a partecipare alle azioni, non è difficile comprendere quanto, in tutto quel tempo, il denaro di cui si appropriano i malviventi sia davvero roba misera.

È a questo punto che entra in gioco il secondo elemento, corollario del primo. Difficile raccontare per intero la storia di questa banda, si diceva, ed è vero che il bilancio accurato di ogni azione e dei relativi proventi, così come redatto dal Servizio centrale operativo della polizia di stato, è differente dal bottino medio indicato sopra: ci sono state incursioni più fortunate, in termini di maltolto, e quelle che invece a quattrini sono state piuttosto deludenti. Talvolta può succedere, se si agisce con serialità. Ma sono state tante, troppe, le volte in cui i banditi sono tornati a casa con le mani vuote. E di qui si può iniziare a rilevate uno degli elementi che rendono i contorni di questa vicenda tutt’altro che nitidi: la logica matematica stride con quella criminale che vorrebbe – insegna chi se ne intende – massimizzare i profitti minimizzando il rischio. Perché un conto è finire in galera per rapina e un altro, invece, per omicidio.

Prima di proseguire e addentrarsi nei non detti di una storia del genere va tuttavia fatta un’ulteriore premessa: se è indubbio che tra familiari delle vittime, sopravvissuti e cittadini ci sia ancora chi sta aspettando risposte a tutt’oggi non soddisfatte dagli iter investigativi, va puntualizzato che i colpevoli dei ventiquattro omicidi di cui sopra ci sono e sono in carcere. I fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi e i loro complici, Luca Vallicelli, Marino Occhipinti e Pietro Gugliotta sono indubbiamente i responsabili dei crimini che sono stati loro contestati. Ancora oggi, però, c’è chi si chiede se, oltre ai sei condannati, ci fossero complici, fiancheggiatori, persone che sapevano o che quanto meno avevano intuito e che rimasero zitte. Se ci fu chi coprì o chi non volle vedere.

Che la memoria sia polvere

Che ci fu chi non seppe vedere è accertato: lo dice la storia della banda o lo dicono le indagini che precedettero la sua neutralizzazione. Del resto, quei sette anni di assoluta impermeabilità, di impunità inattaccabile, di assenza di soffiate o segnalazioni rientrano tra i dati di fatto: mentre i Savi e i loro complici colpivano, c’era chi indagava altrove – non solo tra le forze dell’ordine, ma anche nei servizi – e scovava, incarcerava, processava e non raramente condannava affiliati a clan di catanesi, bande delle Regate o delle Coop e dava per assodata l’esistenza di nuove organizzazioni di criminalità organizzata, come l’inesistente quinta mafia bolognese.

Conflitti di competenza, mancanza di coordinamento tra procure, sottovalutazione di ipotesi investigative alternative, personalismi e carrierismo. Queste alcune delle cause che furono addotte per spiegare la sorprendente longevità dell’imprendibile banda della Uno bianca. Eppure tutto ciò – che pur si verificò – non sembra abbastanza per spiegare una vicenda del genere. Gli stessi atti dei processi e il lavoro di ricostruzione effettuato dai pubblici ministeri Valter Giovannini a Bologna e Daniele Paci a Rimini, pur non avendo potuto accertare l’esistenza di complici e reti di copertura, non escludono la possibilità che qualcuno sia rimasto nell’ombra e impunito. E ancora, pur non essendo stato possibile dimostrare in sede giudiziaria né istituzionale agganci con vicende coincidenti – allo stato attuale delle conoscenze – solo da un punto di vista cronologico (per esempio la scoperta di Gladio, l’attività della Falange Armata, le traversie interne all’arma dei carabinieri, la stagione delle stragi mafiose al di fuori della Sicilia le cui indagini presero tangenzialmente in considerazione anche i fatti della Uno bianca), sta di fatto che da alcuni elementi non si può prescindere.

Primo: la commissione stragi, presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino, nella sua premessa e nella relazione depositata, riconosce che troppe stranezze, troppi errori e troppe coincidenze si sono addensate sulla stessa vicenda senza che fosse possibile andare oltre l’individuazione degli autori materiali di quei crimini. Secondo: in primo grado di giudizio, il ministero dell’interno è stato ritenuto moralmente responsabile della condotta criminale dei suoi uomini e dunque per questo è stato chiamato a rispondere dell’operato di delinquenti vestiti da poliziotti (inutilmente, si deve però aggiungere, dato che la cassazione, in seguito al ricorso fatto dal ministero stesso, ha poi ribaltato questa parte della sentenza scritta da Libero Mancuso). Terzo: nel 2006 l’equiparazione per decreto del presidente della repubblica delle vittime della Uno bianca e dei loro familiari a quelle del stragi terroristiche deve introdurre un ulteriore elemento di riflessione.

Fino a quel momento, infatti, i morti e i feriti erano stato falciati dai colpi di criminali comuni a cui non è stata contestata – né quindi riconosciuta – l’aggravante del terrorismo. Eppure lo spettro di ciò che in Italia è andato sotto l’espressione “strategia della tensione” grava sulla vicenda della Uno bianca. Innanzitutto perché un bilancio di ventiquattro morti e 102 feriti si può chiamare solo strage. Ma è una strage che, invece di compattare, come accaduto per le bombe sui treni, nelle stazioni o nelle banche, polverizza. Polverizza l’opinione pubblica, meno empatica verso uno stillicidio di assassinii, meno consapevole – anche politicamente – di trovarsi di fronte a una minaccia di destabilizzazione e dunque meno appassionata se deve rivendicare verità e chiarezza.

Polverizza gli schieramenti politici che, colposamente o meno, si baloccano con teorie che mettono al centro l’escalation delle strategie mafiose invece di cogliere – con rare eccezioni – analogie evidenti con fatti già accaduti come la strage di Peteano del 1972 (e le relative indagini che, al pari di ciò che accade dopo l’eccidio dei carabinieri al Pilastro, uccisi il 4 gennaio 1991, puntano su balordi di periferia invece che sui reali responsabili) o la vicenda belga della banda Brabante Vallone, attiva tra il 1982 e il 1985 e composta da agenti di polizia in odore di guerra non ortodossa di derivazione atlantica.

E polverizza le vittime, che non hanno modo di fare fronte comune fin da subito: si pensi solo che all’apertura del processo bolognese contro i banditi, gli avvocati presenti a rappresentare le parti civili erano trentaquattro con evidente perdita di coordinamento e dunque di possibilità d’azione e di informazioni.

Da tutto ciò ne discende che quando la storia della Uno bianca volge al termine i veri sconfitti della vicenda non sono solo i criminali che finiscono in galera. Ci sono anche le istituzioni che prima non hanno visto il focolaio di terrore che covavano, hanno perseverato in errori e miopie procedurali e in ultimo non hanno saputo fornire ragione accettabile ed esaustiva di ciò che è accaduto. Vediamo alcuni fatti che confermano queste conclusioni: sono episodi singoli, ma significativi, tasselli di un mosaico che aiutano a comprendere sette anni di mattanza per le strade di Emilia Romagna e Marche.

Si prendano come esempio iniziale le armi utilizzate dai banditi, sempre le stesse e che cambiano solo nel maggio 1991, dopo l’assalto all’armeria bolognese di via Volturno che fa registrare due morti per rubare soltanto due Beretta. Le pistole saranno utilizzate negli ultimi due anni e mezzo di rapine e agguati, ma anche prima le armi erano sempre le stesse e, pur in assenza di bossoli che venivano raccolti da retine e di proiettili frammentati che avrebbero ritardato ma non impedito l’individuazione del calibro, sparavano a raffica come se fossero state dotazioni militari. In Emilia Romagna, i possessori del fucile che si saprà essere un AR70, versione commercializzata ai privati di un analogo modello riservato a possessori non di certo civili, erano una cinquantina e i controlli su di essi saranno praticamente inesistenti, limitati a poco più della disponibilità di Roberto Savi che ce l’aveva, proprio quel fucile, lo cambia con uno pulito e poi si presenta alla scientifica perché sappia con cosa ha che fare.

Depistanti coincidenze

Ma che se ne faranno dei rapinatori di fucili d’assalto che sparano proiettili calibro 222 e che sono stati modificati per esplodere colpi a raffica? Se fin dal 1995, di fronte alla corte d’assise di Bologna nel cosiddetto processo del Pilastro contro i fratelli Santagata, accusati di essere gli assassini dei carabinieri trucidati quattro anni prima, lo stesso Roberto Savi, già detenuto, viene chiamato a deporre e sembra alludere a incursioni che di pecuniario hanno solo l’apparenza, va rilevato che l’atmosfera nel capoluogo emiliano è cambiata già da tempo e lo scontro istituzionale – soprattutto tra il sindaco Renzo Imbeni e il prefetto Giacomo Rossano – è ormai esplicito. Siamo nel periodo in cui si susseguono gli agguati che hanno per obiettivi nomadi, lavavetri e immigrati e Palazzo d’Accursio accusa le forze di polizia di ritardi e cattiva organizzazione. Gli ribatte Rossano che difenderà questura e carabinieri e contrattaccherà: la colpa del crescendo di violenza che si vive in città è dell’amministrazione, troppo elastica nelle sue politiche di accoglienza e del tutto assente quando si tratta di gestire i problemi dell’integrazione. Intanto il controllo del territorio viene rafforzato, i turni delle volanti raddoppiati e l’organico poliziesco rimpinguato con un “contingente straordinario” di ottanta uomini presi dalla narcotici e dagli uffici amministrativi per essere mandati per strada a vigilare sugli insediamenti degli stranieri.

La xenofobia, dunque, oltre al movente pecuniario, sembra essere uno dei caratteri distintivi della banda della Uno bianca. Una xenofobia che incrina l’immagine di una città da sempre conosciuta come tollerante e accogliente. Eppure si arriva a scontri nella stessa giunta Imbeni quando un assessore propone di introdurre il numero chiuso per i nomadi e per un altro pezzo dell’esecutivo bolognese il problema sono gli extracomunitari, non gli zingari, “un problema quantitativamente meno grave”. Al Pilastro, poi, ci sono le scuole Romagnoli, assaltate quella volta sì da razzistelli di periferia ma che diventeranno tra la fine del 1990 e l’inizio del 1991 oggetto di un tentativo di depistaggio da parte dei Savi, come ammettono una volta catturati: confondere le acque sulla reale sequenza delle loro azioni, colpire i carabinieri che pattugliavano per prevenire anche focolai di fanatismo anti-immigrato e addossare la colpa a personaggi con precedenti per atti del genere. Come Davide Santagata, fratello di William e Peter, gli stessi due solo più tardi finiranno a processo proprio per la morte dei carabinieri.

Insomma, per farla breve, depistano le indagini per un triplice omicidio che ancora non è stato commesso. E quando avverrà, la sera del 4 gennaio 1991, ci saranno altri tentativi di inquinamento: come presentarsi sul luogo dell’agguato con una tanica di cherosene per far credere che si voglia bruciare gli immigrati o le loro case e poi, forse, con quella stessa tanica dare fuoco due giorni più tardi alla Uno bianca utilizzata. Su di essa c’era sì il sangue di Roberto Savi, ferito nel conflitto a fuoco con i carabinieri, ma non si può non notare che il luogo in cui l’auto viene fatta ritrovare (la stazione di servizio Cantagallo, in direzione di Firenze) e i proiettili calibro 223 disseminati all’interno e in dotazione solo ai militari, vogliano stavolta depistare non sui Santagata, ma su gente che appartiene ai corpi speciali (in Toscana ci sono la Folgore e gli Incursori) o su un altro gruppo, quello della banda Bechis, costituita da un ex carabiniere ucciso nel 1992 durante uno scontro con le forze dell’ordine.

Però poi i proiettili calibro 223 vanno distrutti nell’incendio e non si trovano più (ne parleranno i Savi successivamente) e torna allora buona l’ipotesi della periferia e della malavita. Sulla quale si investe molto in termini di collegamenti fittizi e si seminano indizi costruiti da arte. Proprio mentre a Bologna le fila degli investigatori si alimentano con l’arrivo da Roma di Gianni De Gennaro, ai tempi in forza allo SCO, e di esperti balistici per capirci qualcosa di più sui proiettili, ecco che salta fuori di tutto: assegni rapinati a Cesena e ritrovati a Catania; titoli di credito romagnoli rinvenuti a Messina; la patente sottratta al direttore di una banca di Casalecchio ricompare al Pilastro; un biglietto da visita di Catania viene lasciato nella Y10 usata per una rapina a un istituto di credito di Zola e su di esso sarà rinvenuta poi l’impronta di Pietro Gugliotta.

Insomma, come gliela devono cantare agli investigatori la canzone della criminalità organizzata, autrice dei delitti che sono invece opera dei poliziotti della Uno bianca? E per chi non ci crede, comunque, ci sono altre piste – false anche queste – su cui indirizzarsi: oltre a quella dell’ex carabiniere Bechis, c’è quella propagandata dal Sisde secondo il quale artefici di tutto sono nomadi slavi che trafficano armi e mercanteggiano con la malavita. E ancora, di nuovo, come il ritornello di una canzone che è sempre la uguale, ancora la mafia del Pilastro, quella imbevuta di razzismo e che ha il grilletto così facile da fare una strage per niente.

Il falso e il vero

Tutto falso, si diceva. Sì, tutto falso. Ma falsi non sono altri elementi. Per esempio, è vero che dopo le incursioni della Uno bianca non è raro che arrivino sul posto pattuglie con gli stessi agenti, tra cui Pietro Gugliotta, prima che venisse trasferito ad altri incarichi, o Luca Vallicello, altro componenti della banda. È vero anche la Criminalpol dell’Emilia Romagna si inserisce spesso – come è normale che sia – nelle indagini, ma raccoglie spunti investigativi importanti per poi farseli squagliare in mano: accade per esempio con la storia del fucile a pompa e accade con i carabinieri di Pesaro quando arrivano con due anni d’anticipo sugli arresti al nome di Alberto Savi che spara a Rimini in un certo modo e con certe modalità. È vero poi che dopo il duplice omicidio di via Volturno, quando muoiono l’armiera Lucia Ansaloni e il suo aiutante, l’ex carabiniere Capolungo, viene tracciato un identikit indiscutibilmente molto somigliante a Roberto Savi, ma accadono due cose: la prima è che nessuno lo nota e la seconda è che la bacheca su cui venivano appesi gli identikit viene chiusa proprio a partire da quella volta impedendo così agli agenti che uscivano di servizio, com’era prassi in precedenza, di farsi copie dei fogli appesi. E inoltre è assolutamente vero che ci fu un brigadiere dei carabinieri, Domenico Macauda, che costruì non per una, ma per due volte false indagini su altrettanti colpi della Uno bianca senza fornire mai alcuna spiegazione esaustiva e convincente del suo operato truffaldino.

Ma allora i Savi e gli altri erano davvero soltanto semplici banditi assetati di denaro, anche se assaltavano nomadi e carabinieri, depistavano direttamente e beneficiavano dell’inaspettato e provvidenziale aiuto di altri depistatori che, oltre al già citato Macauda, vedono coinvolto per esempio anche Francesco Sgrò, già distintosi per le sue fallaci verità sulla bomba dell’Italicus del 4 agosto 1974? Come si vede, si torna sempre anche a ipotesi che vanno oltre la matrice criminale. “Atti a contenuto terroristico, ma privi di finalità eversiva” che non mirava “alla destabilizzazione dell’ordine democratico”, scriverà Antonio Di Pietro nella relazione tecnica che consegnerà alla commissione stragi. E sosterrà che l’uso della violenza gratuita e inspiegabile aveva come unico scopo quello di annullare la resistenza delle vittime. Questa impostazione si chiama “ipotesi soggettivamente terroristica”.

Ma gli elementi che la trasformano in “oggettivamente terroristica” non mancano. Riassumiamoli qui. Il movente pecuniario non spiega sette anni di ferocia dato che i proventi vengono per lo più utilizzati per avere agi da classe media: niente auto di lusso, niente fughe in località esotiche, niente abitazioni sfarzose. Per contro abbiamo obiettivi che si ripetono: un’area geografica definita e contraddistinta anche politicamente in modo netto tanto da essere stata già oggetto di analisi eversive (come accade fin dal 1965 con le strategie eversive che l’Istituto Pollio avrebbe voluto attuare); ci sono poi ripetuti colpi ai punti vendita della Coop, emblema del potere economico rosso in Italia; e la collocazione politica dei fratelli Savi, di estrazione certamente neofascista, che li vede prima vicini alle formazioni giovanili del Movimento sociale italiano e della Cisnal e poi, soprattutto nel caso di Roberto Savi, arriva a lambire Ordine Nero e personaggi finiti nel gorgo del terrorismo nero degli Anni Settanta, come Nestore Crocesi. È in base a questi elementi che, in sede dibattimentale, le parti civili hanno ipotizzato l’esistenza di un piccolo e agile nucleo neofascista che opera in chiave terroristica ma sotto le mentite spoglie della criminalità comune. A questo quadro si aggiunga poi la costante presenza della Falange Armata, fantomatico “service” della comunicazione terroristica che tra la fine degli Anni Ottanta e la metà degli Anni Novanta rivendica di tutto, comprese moltissime azioni della Uno bianca.

Questa complicata storia finisce con la polizia che fa piazza pulita in casa propria. Sono la determinazione, l’intuito e anche una certa dose di fortuna dell’ispettore Luciano Baglioni e del sovrintendente Pietro Costanza, entrambi in forza a Rimini, a porre fine alle scorribande della banda dei Savi. Almeno ufficialmente perché, nonostante questa sia diventa anche verità giudiziaria oltre che investigativa, non è stata comunque sufficiente a dissolvere i dubbi lasciati da un’ipotesi alternativa, quella della “delazione” di qualcuno – si parla di una donna – vicino alla banda che avrebbe messo sulla pista giusta gli inquirenti. I cattivi dunque finiscono in galera, la scia di sangue e terrore si interrompe e finalmente le vittime dovrebbero aver avuto giustizia. E in parte è così. Ma solo in parte perché se effettivamente la Uno bianca fosse stata solo una vicenda di banditi e rapinatori, oggi non ci sarebbero ancora affermazioni ampiamente condivise come quella di Rosanna Zecchi, presidentessa dell’associazione dei familiari delle vittime, la quale disse commentando una richiesta di perdono di Alberto Savi: “Cosa c’è dietro la Uno bianca? chiesero a Fabio Savi. Rispose: la targa. Una targa, evidentemente, di cui ancora oggi le vittime non leggono bene i numeri”.

One thought on “Omissis e il racconto dei fatti “tralasciati”

  1. diego

    Bellissimo, complimenti..mica per caso hai materiale per approfondire il depistaggio di francesco sgrò?

Comments are closed.