Dal porto di Ravenna ci sarebbe stato qualcuno che ha provato a eludere gli obblighi di legge e l’embargo spedendo pezzi di ricambio per mezzi pesanti in Somalia. Mezzi che poi, secondo gli inquirenti italiani, avrebbero potuto essere reimpiegati in ambito bellico e i cui proventi sarebbero stati utilizzati per finanziare Al Shabaab, il gruppo fondamentalista che opera nel Paese. Lo ha raccontato un passaggio specifico della relazione 2011 della Direzione Nazionale Antimafia presentata poco tempo. E il riferimento sottolineato dalla Dna è a indagini della Direzione distrettuale antimafia di Bologna per traffico d’armi, oltre che di rifiuti, verso il Paese in guerra dal 1991. A confermarlo – aggiungendo che la prima segnalazione alle autorità doganali sarebbe arrivata dal Corno d’Africa dopo un controllo fatto a Mogadiscio su 300 camion – è un imprenditore somalo che vive nel padovano e che dall’Italia fa da 35 anni l’esportatore proprio in questo settore.
“Uno di quelli che è passato dal porto di Ravenna”, dice, “è uno che sta a Udine, un mio connazionale che ha venduto camion normali. Un altro viene da Torino e ha una ditta che ha comprato circa 90 tir commercializzati per la maggior parte come pezzi di ricambio. So che alcuni mezzi erano stati veicoli militari, altri invece erano dell’Anas che li aveva dismessi. Quei mezzi, però, possono essere usati anche in ambito militare come singole parti. Il carico lo hanno beccato quando stava arrivando al porto e il container è stato scaricato. Solo metà del materiale poi è partito, come non lo so. Da Verona o da altri posti, in base alle informazioni che mi hanno riferito, ho sentito varie persone che passano da Ravenna, ma non trasportano camion militari, sono normali, con motori, differenziali, cabine e altri pezzi tutti uguali. Le persone che lo fanno però sono malviste nel nostro ambiente e ce ne teniamo lontani”.
Gli episodi a cui si riferisce l’imprenditore straniero risalirebbero a sei mesi fa. “Che io non uso più il porto di Ravenna”, aggiunge, “è da tempo, quando dovevo far partire un agricolo. A quel punto, però, era già entrata in vigore una nuova legge qui in Italia e allora l’ho portato alla dogana di Padova, ho fotografato il tutto e ho spedito la documentazione a Roma, alla guardia di finanza”. È questa infatti la procedura che adesso chi fa import-export di qualsiasi materiale, non solo quello meccanico, deve seguire per spedire in Somalia.
E prima dell’imbarco almeno il 75% del materiale sarebbe controllato proprio per evitare l’esportazione di pezzi che possano poi, una volta giunti nel Corno d’Africa, diventare nient’altro che rifiuti. Oppure che, in base alla logica del dual use, abbiano un apparente impiego civile mentre in realtà la loro destinazione è l’applicazione in campo bellico (indagini analoghe erano state condotte negli ultimi anni dalla procura della Repubblica di Milano per traffici con l’Iran e da quella di Como con il sequestro di 2 mila chilogrammi di materiale metallico destinato alla Repubblica del Congo).
Da quello che ipotizzano indagini non solo italiane, ma anche statunitensi, chi farebbe partire da Ravenna i pezzi di ricambio, poi li venderebbe e i proventi andrebbero a finanziare il gruppo radicale di Al Shabaab, la formazione con relazioni quaediste che dal 2006, dal tramonto dell’Unione delle Corti Islamiche, ha preso il sopravvento in buona parte del Paese. L’imprenditore somalo però storce il naso. “Siccome noi abbiamo Al Shabaab”, commenta, “allora siamo tutti amici dei fondamentalisti. Da quello che i hanno detto, a Mogadiscio hanno fermato più di un anno fa oltre 300 camion. Era roba vecchia e brutta e la polizia somala sa da dove arrivava. Allora la segnalazione è stata inviata a Roma perché sembra che non rientrasse in quella catalogata prima della partenza dall’Italia”.
“Sono convinto che l’indagine sia partita in Somalia”, conferma. “E quei camion erano destinati a tutta l’Africa, non solo alla Somalia. Andavano in Rwanda, Mali, Chad e sono tutti veicoli 4×4 e 6×6, ma in pessime condizioni, quasi dei rottami. L’unica cosa buona che avevano erano il motore e il differenziale, ma la carrozzeria era da buttare via. Gli sportelli non si aprivano o si chiudevano nemmeno. Erano marci, parcheggiati in magazzini per anni e anni. Chi ha comprato questa roba, l’ha smembrata e l’ha piazzata in Africa. Questa però è voce del popolo, notizie che mi sono giunte da altre persone che fanno lo stesso lavoro”.
Il riferimento alla “polizia somala” indica le forze del governo di transizione locale, al momento debolissimo e screditato, oltre che composto probabilmente anche da funzionari sleali (la conferma giunge anche da alcuni degli interventi alla conferenza di Londra sul futuro del Paese). “Da noi non c’è nulla, né governo né autorità diplomatiche. Siamo calpestati sempre. Io però non posso dire di più, di roba militare non mi occupo e se oggi tu spedisci in Somalia un motorino, devi aspettare minimo 15 giorni. Se mandi una Fiat Panda, puoi aspettarne anche 40 perché parta. Quando ho provato a far notare che le pratiche sono eccessive, mi hanno detto che questa è la legge, devo adeguarmi. È capitato che dal porto di Savona abbiano fatto aspettare 2 o 3 mesi e alla fine abbiano detto che di lì non partiva niente. Il materiale andava preso e riportato a casa. Però la dogana e la sosta bisognava pagarle”.
Nella relazione della Dna si parla però anche di traffico di rifiuti verso la Somalia. Un tema che, negli ultimi 18 anni, da quando venne assassinata la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovantin, non ha mai smesso di tenere banco. In effetti questi traffici proseguono? “Quando si parla di argomenti del genere”, conclude l’imprenditore somalo, “voglio dire subito che me ne tengo lontano. E i giornalisti che se ne occupano sperino di non diventare come altre persone che ho visto, altre giornaliste che ho conosciuto, anche quella più famosa d’Italia. Non c’è bisogno di dire com’è finita”.
(Questo articolo è stato pubblicato sul numero di aprile 2012 del mensile La voce delle voci)
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