Cominciavo a sentirmi il «cieco strumento repressivo del potere»; me lo avevo detto Bertrand Russell.
L’anno in cui esce questo libro, Vite di poliziotti, è il 1979: in quei mesi, le Brigate Rosse uccidono a Genova il sindacalista Guido Rossa provocando la reazione del mondo operaio che scende in piazza contro il terrorismo. Quasi negli stessi giorni (è la fine di gennaio) uomini di Prima Linea assassinano a Milano il giudice Emilio Alessandrini. Da Padova, qualche settimana più tardi, vengono ordinati gli arresti di diversi appartenenti ad Autonomia Operaia e Potere Operaio, tra cui Toni Negri, Oreste Scalzone e Franco Piperno mentre l’Italia si prepara alle elezioni anticipate di giugno da cui scaturirà il quinto governo Andreotti.
Proprio in quell’anno – in cui, ancora, Nilde Iotti sarà la prima donna a presiedere la camera dei deputati, Giorgio Ambrosoli pagherà con la vita il lavoro come liquidatore del Banco Ambrosiano Veneto di Michele Sindona e Fabrizio De André, con la moglie Dori Ghezzi, saranno sequestrati in Sardegna – un giornalista che lavora al quotidiano Il Manifesto, Sandro Medici, esce con questo breve e intenso libro-intervista per affrontare un argomento da molti – civili e militari – considerato quasi tabù: la nascita e l’evoluzione del movimento per la smilitarizzazione della polizia che ha portato alla riforma con la legge 128/81. Sono i racconti di due sottufficiali di pubblica sicurezza a tracciare questo percorso. E lo fanno partendo dal secondo dopoguerra per passare attraverso il progressivo inasprimento dell’ordine pubblico e della disciplina interna durante gli Anni Cinquanta.
Fuori i comunisti, fuori chi protestava, fuori chi non si piegava, in quel periodo. E non c’era bisogno di troppe motivazioni, né tanto meno che queste fossero fondate: i superiori non si contraddicevano, qualche traditore parigrado lo si rimediava sempre e in servizio la propria fedeltà allo stato (anche – e in alcuni casi soprattutto – quello che non c’era più dal 25 luglio 1943) andava dimostrata con la brutalità con cui si usava il manganallo. E poi ancora le umiliazioni costanti, trasferimenti e assegnazioni senza logica e rispetto, il riposo negato e la silenziosa e personale via di fuga attraverso i libri e i giornali, a partire da quelli di sinistra.
La presa di coscienza che conquistare determinati diritti avrebbe significato un lavoro più tutelato ma anche maggiori sicurezze per i cittadini è passata all’inizio per singoli agenti. Che non parlavano con i colleghi, attendevano la fine del turno per studiare ancora e nel segreto della cabina elettorale davano voce alla propria consapevolezza politica. Nel giro di qualche anno, però, questo non è più stato sufficiente e sono iniziate le prime riunioni. È iniziata l’esperienza della rivista Polizia e Democrazia, voluta e sostenuta non da un poliziotto, ma da un giornalista, Franco Fedeli, a cui da dodici anni è intitolato un premio letterario indetto dal Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori polizia). Ed è nata finalmente anche all’interno una resistenza esplicita e coraggiosa, che si è schierata contro le prevaricazioni dei superiori, il fascismo serpeggiante, le piazza gestite a suon di violenza. Ma non è stato un percorso indolore, le ostilità intestine sono state feroci e ogni battaglia vinta, ogni riconoscimento istituzionale, è stato strappato anche quando nessuno – dentro e fuori – credeva che fosse possibile anche solo ipotizzare una polizia diversa. Si legge infatti a un certo punto:
C’era un gran fumo e il caratteristico odore dei lacrimogeni. «Che è successo?» abbiamo chiesto a un gruppo di colleghi, alcuni in divida e altri no, che stavano vicino alla porta della palestra. «Niente, niente!» hanno subito risposto. Poi sono ricominciate le urla e abbiamo capito che là dentro c’era della gente e che qualcuno le aveva sparato addosso un lacrimogeno. A quel punto ci siamo avviati verso la porta per aprirla, ma subito sono scattati in avanti per impedircelo. «Li dobbiamo ammazzare tutti, questi porci studenti!» urlavano. Urlavamo anche noi; capivamo che quelli avevano messo in piedi una provocazione e che noi dovevamo impedirla. Spintoni, insulti, qualche pugno. Poi sono arrivati altri colleghi del sindacato e così abbiamo formato un cordone […]. Abbiamo aperto la porta della palestra e anche i finestroni. Gli studenti con le facce stravolte ci hanno sputato addosso e ci hanno chiamato «assassini» […].
Un agente, a qualche metro da noi, appoggiato al muro con il casco e il manganello in mano, piangeva. Era mezzo illuminato e mezzo al buio, come un uomo a metà.
Il passaggio si riferisce a ciò che è accaduto dopo una manifestazione alla fine degli Anni Settanta e suona così simile, soprattutto in alcuni punti, a determinati episodi accaduti a Genova del 2001. Solo che in questo secondo caso, il sindacato o, meglio, i sindacati di polizia esistevano già da quasi trent’anni e la smilitarizzazione da venti esatti. Allora che è accaduto in questo arco di tempo? Mentre c’è chi sta provando a comprenderlo e i processi portano alla luce scenari sudamericani, il libro di Sandro Medici è una testimonianza rara e utile perché getta uno sguardo tra quegli operatori che nella democrazia ci credono davvero e che cercano di lavorare dall’interno per cambiare la situazione. Attendiamo che avvenga anche per Genova.
In ultimo, peccato solo che questo volume non si trovi più in commercio (la mia copia l’ho recuperata sugli scaffali dell’usato) e che per trovarlo le biblioteche rimangano la risorsa più affidabile.
Vite di poliziotti di Sandro Medici (Gli Struzzi, Einaudi, 1979) — 128 pagine — € 10,00
(Questo articolo è stato pubblicato all’interno della rubrica Cronaca nera di Thriller Magazine.)