Sono trascorsi 34 anni da quando i giornalisti italiani Graziella De Palo e Italo Toni scomparvero da Beirut senza che fossero mai ritrovati (era il 2 settembre 1980). Eppure ancora oggi non si vuole far cadere quella cortina di silenzio che nel 1984 venne sancita con l’opposizione del segreto di Stato dall’allora presidente del consiglio Bettino Craxi.
Nel corso dell’autunno 2009 c’è stato un momento in cui sembrava che questa cappa di occultamenti fosse destinata a essere quanto meno scalfita. Durante la presidenza del Copasir di Francesco Rutelli, infatti, era stato declassificato un migliaio di documenti che avrebbe dovuto essere consegnato entro l’anno ai familiari dei giornalisti e ai loro avvocati. «Ci aspettavamo di essere convocati appena prima o appena dopo Natale», dice Giancarlo de Palo, fratello di Graziella. Invece non è accaduto.
Dopo trent’anni nuovi omissis
A giustificare un ritardo che ormai si protrae nei decenni è stata l’imminenza – annunciata almeno a parole – della rimozione del segreto di Stato da altri duecento documenti. E la conseguente volontà – anche questa dichiarata solo a livello di intenzione – di fornire il materiale in un unico blocco. «Abbiamo una lettera di Gianni Letta in cui si promette che i documenti declassificati saranno a nostra disposizione entro e non oltre il 31 dicembre 2010», prosegue il fratello della giornalista scomparsa. «Ma a noi questo non sta bene perché l’assicurazione di Rutelli era che le carte ci sarebbero state date entro l’autunno del 2009. Ci spieghino il motivo per cui dovremmo aspettare altri dieci mesi per avere documenti che saranno comunque incompleti, dato che ne mancherà almeno una trentina. In pratica vogliono imporci questo ulteriore rinvio per avere poi materiale incompleto e con nuovi omissis».
Già, gli omissis. Perché, se davvero la famiglia riceverà quelle pagine finora segretate, sui documenti divenuti finalmente consultabili sarà applicata ex novo una serie di “cancellature”. È una delle novità comunicate ai De Palo a metà dello scorso febbraio. Le parti che infatti riguardano persone ancora viventi non potranno essere lette, facendo mancare ancora una volta frammenti di notizie in merito alla fine che fecero gli italiani nel loro ultimo viaggio in Libano. Ma non è ancora tutto.
Se un’ulteriore novità delineatasi in queste settimane racconta di un’imminente azione parlamentare per far rientrare Graziella De Palo e Italo Toni tra le vittime del terrorismo e della mafia, ce n’è un’altra che suona singolare. A raccontarla è ancora Giancarlo De Paolo. «L’intenzione è quella di affidare il recupero dei corpi di mia sorella e di Italo ai servizi segreti. È un paradosso vero e proprio perché, se c’è un apparato che ha fatto in modo che in tutti questi anni non fossero mai trovati, quello è il Sismi. Dunque, se qualcosa del genere dovesse davvero accadere, ci troveremmo di fronte a un nuovo caso Calipari, con l’Aise chiamato a riparare a quello che hanno fatto i servizi militari pre-riforma del 2007».
E mentre dal Comune di Roma giunge la conferma che a Italo Toni e Graziella De Palo saranno intitolati il prossimo 2 settembre, il giorno dell’anniversario, due viali a Villa Gordiani, sembra allontanarsi invece la possibilità di far piena luce su una vicenda che ha visto in scena ufficiali dell’intelligence organici alla P2, innegabili depistaggi operati da apparati istituzionali, “supertestimoni” che hanno dichiarato il falso, irriferibili trattative tra lo Stato italiano e le organizzazioni palestinesi e, non ultime, reticenze straniere quando si è trattato di collaborare con le indagini.
Le responsabilità dei servizi e delle autorità straniere
Questo è il quadro che ha costretto la magistratura italiana a lavorare con estrema difficoltà. Tanto che a oggi, per il caso Toni-De Palo, c’è solo una condanna, inflitta a un maresciallo dei carabinieri, Damiano Balestra. Ai tempi della scomparsa dei giornalisti italiani, era addetto alla cifratura e decifratura dei messaggi che intercorrevano tra l’ambasciata italiana a Beirut e la Farnesina. Il sottufficiale, invece di mantenere la discrezione sulle comunicazioni tra l’allora ambasciatore Stefano D’Andrea e il ministro degli esteri Emilio Colombo, aggiornava sullo stato delle ricerche dei giornalisti il colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone, capo centro del Sismi in Libano e uomo di fiducia di Aldo Moro ai tempi dell’omonimo “lodo” che doveva garantire all’Italia una sorta di immunità dall’azione terroristica dei mediorientali in cambio del loro transito indisturbato sul territorio nazionale.
Giovannone, a propria volta, trasmetteva queste informazioni ad altre persone mai identificate. Ma soprattutto lui e il suo direttore, Giuseppe Santovito, iscritto alla loggia di Licio Gelli, hanno aiutato i sequestratori degli italiani a eludere le indagini dirottando, per esempio, gli investigatori dalla zona di Beirut occupata dai palestinesi (zona in cui De Palo e Toni scomparvero) verso il settore della città in mano ai cristiano-falangisti. E hanno dato man forte ai palestinesi quando si è trattato di denigrare – e infine bloccare – l’ambasciatore D’Andrea, che subito si era attivato per capire cosa fosse successo ai giornalisti. Inoltre – venne accertato in fase di indagine – Santovito dichiarò il falso quando disse di essere andato nell’ottobre 1980 all’ospedale americano per verificare se fosse vero (non lo era) che i corpi dei giornalisti erano tra i quattro cadaveri conservati nella struttura sanitaria statunitense. Ma Giovannone e Santovito a giudizio non ci sono mai arrivati per “morte del reo”.
Invece non si poté procedere per insufficienza di prove contro George Habbash, il referente dei gruppi più radicali dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, sospettato dal pubblico ministero Giancarlo Armati di aver partecipato al sequestro e ucciso i giornalisti italiani. Intanto dal Libano si continuò per anni a dire che Graziella era viva. Se Italo venne dato per morto «subito o quasi», ci fu chi – come Yasser Arafat e lo stesso Giovannone – garantì alla madre della giornalista che la giovane sarebbe tornata a casa presto. E, come se tutto ciò non bastasse, nella vicenda entrarono anche depistatori “abituali”, come Elio Ciolini.
Dalle menzogne al segreto di Stato
Mischiando notizie vere a falsità, dal carcere svizzero dov’era detenuto, Ciolini scrisse che erano stati tenuti prigionieri in un campo dell’Olp nel sud del Libano. Qui ci sarebbero andati per intervistare Nayef Hawatmeh del Fronte democratico per la liberazione palestinese. Fin qui la parte vera della storia. Il resto, invece, parla di una casualità che sarebbe costata la vita ai giornalisti: entrando per errore in una stanza, avrebbero visto e riconosciuto un ministro e un terrorista italiani che partecipavano a una trattativa per un traffico d’armi. Alla verifica dei fatti, quest’ultima parte delle dichiarazioni di Ciolini venne ritenuta inattendibile perché pilotata dal Sismi con la collaborazione di diplomatici assegnati all’ambasciata italiana in Svizzera. Inattendibili furono giudicate le confidenze che sempre Ciolini andava facendo su un’altra vicenda, quella della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
Anche un altro presunto informatore sul caso Toni-De Palo, tale Batrouni Anware Amine, un libanese in carcere a Trieste per traffico di droga, non fu tenuto in considerazione: se in un primo momento disse di avere informazioni interessanti, poi riferì elementi già pubblicati dai giornali.
Infine, malgrado la Sureté libanese avesse condotto indagini ben orientate, la collaborazione da parte della magistratura locale fu praticamente nulla. Solo dopo molte sollecitazioni giunte da Roma, si fece meno dell’indispensabile limitandosi a interrogare il portiere dell’albergo Triumph, dove De Palo e Toni avevano alloggiato, ma l’immobilismo successivo indusse gli inquirenti italiani a inoltrare alcune rogatorie cadute nel nulla. Quando nel 1984 si giunse poi alle incriminazioni più spinose – quelle di Giovannone e soprattutto di Santovito – il colonnello del Sismi si trincerò dietro il segreto di Stato: non era possibile, a suo dire, sapere quali fossero i rapporti intercorsi tra i servizi segreti italiani e l’Olp. Il presidente del consiglio confermò.
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BOX – 1980: anno di misteri
La scomparsa di Maria Grazia De Palo, per tutti Graziella, 24 anni, e di Italo Toni, 50, entrambi specializzati in Medioriente e in traffico di armi, venne denunciata dai genitori della ragazza il 4 ottobre 1980. Agli agenti della questura di Roma raccontarono che i giornalisti erano partiti il 22 agosto precedente per il Libano passando attraverso la Siria. Per preparare il viaggio, si erano avvalsi dell’aiuto di Nemer Hammad, portavoce in Italia di Yasser Arafat, e avrebbero dovuto rientrare il 15 settembre. L’ultimo contatto avuto con la figlia risaliva al 23 agosto quando, da Damasco, Graziella aveva spedito un telegramma scrivendo solo «au revoir», arrivederci, per annunciare l’atterraggio. Dopodiché il silenzio. Fino alla metà di settembre, tuttavia, non ci si era preoccupati, dato che era difficoltoso comunicare dal Libano, precipitato nel 1975 in una guerra civile che che durerà diciassette anni. Quando però i giornalisti non erano rientrati, la famiglia aveva tentato invano di avere informazioni dall’Olp di Roma e dalle ambasciate di Beirut e Damasco.
Solo accertamenti successivi permisero di ricostruire i movimenti della coppia fino al 2 settembre. Da Damasco, il giorno dopo l’arrivo su un aereo della Syrian Air, erano partiti in auto per la capitale libanese passando attraverso un varco controllato dai siriano-palestinesi, dato che non disponevano di un visto d’ingresso. Quindi avevano alloggiato all’albergo Triumph, nell’area ovest della città, sotto il controllo palestinese. Il primo settembre si erano presentati all’ambasciata italiana comunicando i propri spostamenti per i giorni successivi: era infatti loro intenzione raggiungere il meridione del Paese dove realizzare alcuni reportage sulle basi del Fronte democratico per la liberazione palestinese. Il giorno successivo, dunque, venne a prenderli un’auto direttamente di fronte all’albergo, dove lasciarono i loro effetti personali. A quel punto scomparvero. E scomparve anche una parte degli oggetti appartenuti ai due giornalisti. Come un pezzo del block notes. Alla famiglia De Palo vennero però restituite diverse paia di scarpe da donna mai appartenute a Graziella.
(Questo articolo è stato pubblicato sul numero di marzo 2010 del mensile La voce delle voci)
bel pezzo Antonella, complimenti
Chi è stato è stato.
Chi é stato é stato.
@Emilio: grazie. @Lucia: eh, prima o poi c'e' chi spera di sapere i nomi.
lucia, ormai e’ tardis
lucia, ormai è tardis
L’indagine giudiziaria aperta dal PM Giancarlo Armati, cui nell’autunno 1981 consegnai il materiale raccolto e registrato nel corso della mia personale inchiesta, concluse nel 1984 che Graziella e Italo erano stati “sequestrati e uccisi” da killer appartenenti all’ Organizzazione per la liberazione della Palestina.
La censura su questa tragedia è dovuta al fatto che essa fu gestita dal SISMI, il servizio segreto militare italiano, sotto la direzione del piduista gen. Giuseppe Santovito, e in particolare dal suo corrispondente a Beirut, Stefano Giovannone. Entrambi incriminati, il secondo anche arrestato, per il loro favoreggiamento personale dei palestinesi responsabili del duplice omicidio.
Il processo nei loro confronti, sebbene non si sia svolto per “morte del reo”, ha comunque portato alla condanna definitiva di un carabiniere addetto all’ufficio cifra dell’Ambasciata italiana a Beirut, per aver trasmesso illecitamente al corrispondente del SISMI le informazioni segrete dell’ambasciatore Stefano D’Andrea, informato quasi subito delle responsabilità dell’OLP, e ben presto minacciato e rimosso dalla sua sede di Beirut dal Ministro Emilio Colombo, mentre la Farnesina aveva come suo segretario generale il piduista Francesco Malfatti di Montetretto.
Il segreto di Stato sui rapporti fra SISMI e OLP, invocato come movente dell’operato depistatorio dei servizi italiani – i quali giunsero a far “risuscitare” Graziella ed Italo, dichiarandoli però, con l’avallo di Yasser Arafat e Abu Ayad, prigionieri dei Falangisti cristiani – fu apposto sempre nel 1984 dal premier Bettino Craxi.
In seguito alla Legge Prodi del 3 agosto 2007, che oltre ai Servizi Segreti italiani riforma la disciplina sul segreto di Stato, la mia famiglia ha presentato nel 2009 un’istanza al Governo del piduista Silvio Berlusconi, riuscendo infine, lo scorso mercoledì 10 marzo, a cominciare a prendere visione dei 1240 documenti desecretati sotto la pressione del voto unanime del Comitato per la Sicurezza della Repubblica presieduto dal senatore Francesco Rutelli.
This comment was originally posted on Xaaraan – Il blog di Antonella Beccaria