“Italia. La fabbrica degli scandali”: alluvioni, disastri idrogeologici e il “sistema” delle catastrofi

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Storm over Italy, Polesine, 1951

Italia. La fabbrica degli scandaliQuesto testo è un estratto del capitolo “Immobili, opere pubbliche e altri disastri” contenuto nel libro scritto con Gigi Marcucci Italia. La fabbrica degli scandali (Newton Compton). Dai disastri edilizi ai danni idrogeologici il passo fu breve. Sosteneva il 30 gennaio 1973 il senatore Gerardo Chiaromonte: «Non esiste in Italia materia più studiata e approfondita di quella che riguarda la difesa del suolo. Esistono biblioteche intere piene di libri, di inchieste, di relazioni: cosa dobbiamo ancora conoscere?». Eppure, dagli albori della prima Repubblica alle cronache dell’estate 2014, la storia italiana è stata percorsa da catastrofi – 170 alluvioni, la maggior parte nel periodo autunnale – di cui a livello di dibattito pubblico si parlò, ma non con l’enfasi che sciagure del genere avrebbero meritato.

Inondazioni come quelle avvenute tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta in Campania (2 ottobre 1949, con l’esondazione dei fiumi Volturno e Calore, evento definito «una specie di Pompei delle acque») e in Calabria (22 ottobre 1951, 100 vittime, con tragica replica due anni più tardi lungo la costa ionica) furono di fatto archiviate tra la disattenzione generale. Più clamore suscitò l’alluvione del Polesine, nel novembre 1951, a cavallo tra le province di Rovigo – quella più colpita dall’espansione improvvisa delle acque del Po insieme al Ferrarese, Mantova e, in parte, al basso Veneziano – e di Venezia.

Con un bilancio di 84 morti, una quarantina di dispersi e 180mila senzatetto, l’evento fu il peggiore del Novecento, diventando anche oggetto di un documentario americano, Storm over Italy, il cui obiettivo era «far conoscere agli Stati Uniti e al mondo intero la tragedia della Val Padana». Sia da Washington sia dai Paesi del blocco sovietico giunsero convogli e aiuti. Per quanto riguarda le cause del disastro, le precipitazioni che da ovest si erano spostate a est avevano effettivamente ingrossato i corsi d’acqua che si gettavano nel Po, ma risultò che non erano stati completati i lavori per l’innalzamento degli argini a causa della mancanza di fondi: mancanza che il Genio civile di Rovigo attribuiva al ministero dei Lavori pubblici e al Magistrato delle acque. Inoltre, le opere pubbliche – soprattutto i cavalcavia ferroviari, stradali e autostradali – erano risultate troppo fitte lungo il percorso del fiume. Aveva così trovato sul suo corso molteplici barriere che impedivano il deflusso del materiale che le acque trascinavano con sé.

Di responsabilità legate alla mancata sistemazione di fiumi si tornò a parlare nei due anni successivi, in occasione di nuovi disastri, ma le denunce rimasero inascoltate. Nel 1954 fu devastata la costiera amalfitana, che subì danni per 50 miliardi di lire dell’epoca, e cinque anni più tardi fu la volta della provincia di Ancona e del Metaponto. E poi giunse il 4 novembre 1966 con l’alluvione di Firenze, che in realtà si estese a tutto il corso dell’Arno. Mentre anche altre zone, come il Nordest e di nuovo il delta del Po, finivano sott’acqua, in certe località toscane il livello del fiume Arno si innalzò al punto che in alcuni centri abitati si registrarono quasi 6 metri d’acqua. Trentacinque le vittime ufficiali, nonostante si sia pensato a lungo che fossero di più, 17 delle quali registrate a Firenze, le restanti nei comuni limitrofi.

A fronte del disastro – impresso nelle immagini dei telegiornali e sulle prime pagine della stampa che ritraevano la Biblioteca nazionale centrale e la basilica di Santa Croce invase dal fango – tornava una domanda fin troppo spesso formulata: tutto inevitabile? Proprio così si intitolava un editoriale pubblicato dal parlamentare Franco Busetto sul quotidiano «l’Unità» il 5 novembre 1966. Ancora una volta, l’intensità delle precipitazioni era stata notevole, ma per il deputato comunista ciò non bastava a spiegare la portata delle conseguenze:

Non solo le difese non [erano] state [approntate], nel tempo e per tempo, ma non si [era] provveduto a colpire le cause […] sulla base della fragilità e del disordine che […] caratterizzano le condizioni idrogeologiche del nostro Paese. [Peraltro] il piano Pieraccini [il disegno di legge sul programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1969, relegava] questo grande problema nazionale della sistemazione del suolo e della sistemazione dei fiumi, con poche righe, nel capitolo intitolato Altre opere pubbliche, con previsioni di investimento in cinque anni […] al di sotto delle spese eseguite, e male, negli anni precedenti. [Inoltre si contestava] il fatto scandaloso per cui […] per la regolamentazione dei corsi d’acqua previsti dalla legge numero 11 del 1962, non vi [era] nessun nuovo stanziamento a questo scopo nel bilancio dello Stato per il 1967.

Nemmeno dopo questo disastro dagli imponenti effetti mediatici si intervenne con convinzione per contenere i dissesti idrogeologici. Lo testimoniano i fatti degli anni successivi: per citare solo i più gravi e fermarsi alla seconda metà del xx secolo, vanno ricordati i 72 morti nel novembre 1968 in Piemonte, i 44 a Genova nel 1970 e i 53 della Valtellina nel 1987. E ancora, di nuovo in Piemonte, i 70 morti dell’autunno 1994, i 13 della Versilia nel giugno 1996, i 6 di Crotone nell’ottobre 1996 e i 159 di Sarno e Quindici tra il 5 e il 6 maggio 1998. Nel nuovo millennio, il meteorologo Mario Giuliacci inserisce nell’articolo del 20 novembre 2013 Storia delle alluvioni in Italia. Perché sono aumentate?:

Alluvione a Soverato del 9 settembre 2000 (12 vittime), alluvione in Piemonte del 13-16 ottobre (23 vittime, 40.000 sfollati). Il 23 settembre 2003 alluvione di Carrara (2 morti). Il 29 maggio 2008 in Piemonte, [poi] le alluvioni di Cancia (18 luglio 2009), Messina (1 ottobre 2009) e Atrani (9 settembre 2009), alluvione in Versilia (ottobre 2011), Liguria (settembre 2012) e […] l’alluvione in Sardegna (19 novembre 2013, 16 vittime).

Al bollettino vanno aggiunti inoltre episodi recentissimi, al momento in cui si scrive, come quello della provincia di Modena, che ha riguardato 8 comuni e 1800 aziende (gennaio 2014), e l’alluvione di Refrontolo (Treviso), avvenuta il 3 agosto 2014, 4 le vittime. Le inchieste della magistratura hanno accertato per molti di questi episodi la sottrazione di fondi pubblici destinati ai lavori di consolidamento ambientale e di mantenimento dei corsi d’acqua. Nel 1970 venne istituita la Commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e la difesa del suolo, conosciuta anche come commissione De Marchi.

Nel 1984 fu creato il Gruppo nazionale per la difesa dalle catastrofi idrogeologiche (Gndci) su iniziativa del ministro per la Ricerca scientifica e negli anni che seguirono arrivarono norme che si aggiungevano a quelle esistenti, leggi quadro che davano definizioni e linee guida d’intervento. Nonostante tutto questo, non si riuscì giungere nemmeno a un contenimento degli effetti del dissesto idrogeologico diffuso nel Paese. Il fattore umano moltiplicava e amplificava le conseguenze degli eventi naturali, come spiega Antonio Vallario nel libro Il dissesto idrogeologico in Campania (Cuen, Napoli 2001).

Dal 1945 al 1999, per fenomeni sismici, eruzioni vulcaniche, sprofondamenti, alluvioni e frane si sono lamentate circa 10mila vittime, 14 vittime-mese, e sono stati attivati flussi finanziari non inferiori a circa 200mila miliardi [di lire], 10 miliardi-giorno, investimenti per rimuovere pericoli e riparare danni ripristinando lo stato dei luoghi.

Eppure nessun effetto è stato ottenuto dando vita uno scandalo diluito nel corso del tempo, senza fine, eterno. Uno scandalo che, come ha scritto il geologo Marco Delle Rose, «conferma che il sistema, per mantenere condizioni elevate di redditività del capitale investito, ha bisogno di continue distruzioni di capitale su larga scala. Le “catastrofi idrogeologiche” ben si prestano a questo scopo, al contrario della “manutenzione ordinaria” del dissesto». Ma non c’è solo questo. Il “sistema”, in questo ambito, si è nutrito spesso di fenomeni di corruzione, di arricchimento illegale, e ciò è stato possibile perché negli anni è stato foraggiato dal cosiddetto “ciclo del cemento”, espressione sotto la quale rientra un’ampia gamma di manifestazioni, dall’abusivismo edilizio al consumo del territorio con inevitabili riflessi sui bacini idrici.