Non che ci si aspettasse qualcosa di diverso. I (pochi, pochissimi) giornali che hanno coperto il processo d’appello per l’omicidio di Roberto Calvi lo avevano annunciato: dal dibattimento non sta emergendo alcun elemento nuovo rispetto al primo processo ed è dunque probabile che saranno di nuovo tutti assolti. Così è stato. Flavio Carboni (http://domani.arcoiris.tv/?p=3277), tornato a occupare le cronache giudiziarie insieme al pidiellino Denis Verdini per business poco chiari nell’eolico, Pippo Calò ed Ernesto Diotallevi – simboli rispettivamente di affarismo, mafia e banda della Magliana – non sono stati ritenuti responsabili né materialmente né moralmente della fine che fece il “banchiere di Dio”, impiccato il 18 giugno 1982 a Londra, sotto il ponte dei Frati Neri.
Rimane la chiazza, in forza della pur non più recentissima riforma del codice di procedura penale, del secondo comma all’articolo 530 del codice di procedura penale, quello secondo cui «il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile». Una volta si chiamava insufficienza di prova, ma la rimozione formale di quest’espressione non toglie la sostanza di un’assoluzione a cui viene applicato questo sigillo: secondo la corte, manca l’elemento definitivo di colpevolezza e dunque non c’è margine per la condanna.
Se sul piano personale si tratta di una vittoria per gli imputati, a un livello più ampio è una sconfitta politica e storica. Non tanto per il bis assolutorio quanto perché questa sentenza pone di fatto la parola fine al percorso giudiziario che avrebbe di fatto dovuto stabilire chi e perché fece fuori uno dei banchieri più potenti d’Italia, secondo forse solo al suo più abile e cinico predecessore, Michele Sindona. Tempo un paio d’anni, infatti, e la parola prescrizione dichiarerà l’estinzione del reato. E se una qualsiasi ulteriore ricostruzione sarà possibile, ora tocca ai ricercatori e agli storici.
Che – pur in assenza di un colpevole per quel delitto – partono con qualche punto fermo. In attesa di leggere le motivazioni della sentenza del 7 maggio, infatti, si può fare riferimento a quella precedente, al lavoro del pubblico ministero Luca Tescaroli, ai testi dei ricorsi e all’archiviazione dell’accusa di omicidio mossa a Licio Gelli, maestro venerabile della loggia P2 che con questa storia c’entra molto. I pochi punti fermi ci dicono che la grande finanza, a cavallo degli anni di piombo, faceva affari con cosa nostra: i proventi delle attività criminali della mafia venivano dati prima a Sindona (uomo forse di una mafia più moderata) e poi a Calvi (che strinse alleanze con il fronte più violento e militarizzato). Costoro si preoccupavano di portare all’estero e investire questo denaro. Un sistema per investirlo era finanziare le trincee dell’anticomunismo estremo in America Latina e nell’Europa orientale (e qualcosa ne dovrebbe sapere Lech Walesa, leader del sindacato polacco Solidarnosc, per quanto alle recenti domande di Tescaroli abbia risposto evasivamente dicendo che il suo movimento era sostenuto da anonimi benefattori). A triangolo di un simile virtuosismo criminale c’era la finanza vaticana, con lo Ior di monsignor Paul Casimir Marcinkus, che ne trasse beneficio personale traducibile in potere, in un tenore di vita e in immobilizzazioni poco caritatevoli.
Da un punto di vista storico-politico, questi punti di partenza non sono marginali. Certo, mancano le responsabilità personali, quelle necessarie per mandare in galera una persona. Ma decretare periodi più o meno prolungati di detenzione è compito della magistratura, non degli osservatori e degli studiosi. Che, forse, se volessero ripercorrere gli ultimi mesi di vita di Roberto Calvi, dovrebbero mettersi sulle tracce di altri defunti per morte violenta. Qualche esempio? Sergio Vaccari Agelli, assassinato il 16 settembre 1982 nel suo appartamento di Londra, al 68 di Holland Park. Chi lo fece fuori, fece in modo che soffrisse parecchio. Forse ce l’avevano con lui per traffici d’opere d’arte rubate o per questioni di droga, attività che avevano lasciato il segno sulla sua fedina penale. Ma in pochi oggi ricorderanno che si disse che Vaccari aveva trascorso con Calvi l’ultima sera della sua vita e che si sarebbe dato da fare per procurare l’imbarcazione su cui il banchiere sarebbe stato assassinato.
Un altro esempio è quello della britannica Jeanette May Bishop, ex signora Rothschild, che scomparve prima dei fatti in oggetto: era il 29 novembre 1980 e sparì nel nulla con l’amica e interprete sulle alture delle Marche. Entrambe vennero ritrovate solo alla fine del gennaio 1982 e il magistrato che indagava su quelle morti, il giudice istruttore Alessandro Iacoboni, escluso il decesso per cause accidentali, disse: «Nella mia inchiesta è entrato di tutto, proveniente, si badi bene, da atti ufficiali, non certo dalla fantasia dei giornalisti o dalle lettere anonime che pure hanno arricchito il fascicolo». Tra questo tutto, c’era un legame tra la donna inglese e Vaccari, il traffico di opere d’arte, una rapina del 1980 alla sede romana di Christie’s, le vicende del Banco Ambrosiano e un indirizzo che corrispondeva non del tutto ma quasi alla residenza romana di Pippo Calò.
E poi c’è la storia di Valerio Viccei, ex Nar (Nuclei armati rivoluzionari) che, scappato dall’Italia, a Londra diventa nel 1987 il “rapinatore del secolo” dopo il colpo al Knightsbridge Deposit Centre di Brompton Road, 126 cassette di sicurezza che vennero saccheggiate per un bottino da 60 miliardi di lire. Nel 1993 Viccei dirà che compito suo era quello di portare via anche documenti appartenuti a Calvi e non ritrovati dopo la sua morte. Le autorità britanniche liquidarono queste parole come un tentativo del bandito di vedersi riportare in Italia e poi ridurre la pena. Cosa che avvenne. Viccei nel 1997 lasciò il carcere di Campobasso, si dichiarò pentito, disse di voler iniziare una nuova vita all’insegna della legalità, ma nel 1991 finì i suoi giorni in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine mentre – si disse – stava preparando un nuovo assalto.
Ecco, questi sono solo alcuni esempi di ciò che l’espressione “caso Calvi” contiene al suo interno. Un mistero dentro l’altro che, forse, potrebbe portare a una facile e tranquillizzante (almeno sul piano sociale) spiegazione: avidità, magari, ricerca disperata di una facile via per accumulare denaro. Vicende che con Vaticano, finanza internazionale, criminalità organizzata possono non aver nulla a che fare. Ma la seconda assoluzione e la prossima prescrizione stenderanno un velo. Anzi, una pietra tombale, che mozzerà la conoscenza del passato e consegnerà più segreti che verità. A iniziare da quelle giudiziarie.
(Questo articolo è stato pubblicato sul Domani di Maurizio Chierici nella rubrica I peggiori protagonisti della nostra storia.)
daltronde alcuni sono ancora in attività , che fa li vogliamo prepensionare?