Nei giorni scorsi, il Fatto Quotidiano riportava – unico tra le testate nazionali, se si esclude Radio Radicale, che ne ha pubblicato su web la registrazione integrale – la cronaca di un’udienza di fine anno del processo per la strage di piazza della Loggia, avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974. A firmare quella cronaca è Elisabetta Reguitti, che ascolta in aula la deposizione di Angiolino Papa.
Papa venne arrestato nel gennaio 1975 nell’ambito di un’indagine su Ermanno Buzzi per la morte di Silvio Ferrari, un neofascista ventiduenne vicino agli ambienti milanesi della Fenice di Giancarlo Rognoni e Nico Azzi e morto nel maggio 1974 mentre trasportava una bomba sulla sua Vespa. Ermanno Buzzi, invece, era un criminale comune di orientamento neonazista e con aspirazioni dandy. Nel 1979, in una sorta di sillogismo giudiziario che dall’indagine Ferrari portò a piazza della Loggia, sia Papa che Buzzi saranno condannati rispettivamente a dieci anni e all’ergastolo per la strage di Brescia. Buzzi poi, nel 1981, verrà assassinato nel carcere di Novara da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli e l’anno successivo i suoi coimputati – Papa compreso – saranno assolti dalle accuse per i fatti di Brescia con una sentenza divenuta definitiva.
Sul finire del 2009, dunque, Papa è tornato a raccontare dei metodi investigativi tutt’altro che ortodossi usati per incastrarlo. E racconta di Francesco Delfino, l’ufficiale dei carabinieri che si occupò delle indagini per la strage di Brescia fino al 1977, quando venne trasferito prima a Milano per passare l’anno successivo al Sismi sotto la cui egida rimase fino alla seconda metà degli anni Ottanta. Di questo periodo si ricorda la sua frase «si ha suicidato», riferita nel 1997 alla commissione stragi: si riferiva alla morte del banchiere Roberto Calvi, avvenuta a Londra il 17 giugno 1982, quando Delfino era capo centro Europa, e con quella bizzarra forma grammaticale – affermò – voleva dire che dubitava dell’ipotesi del suicidio.
Ma torniamo agli anni Settanta, quando Delfino stava ancora a Brescia e convinceva Papa, Buzzi e altri del loro giro a dichiararsi colpevoli di delitti che non avevano commesso. Classe 1936, ai tempi era un capitano dei carabinieri e comandava il nucleo investigativo avendo come collaboratori per esempio il brigadiere Giovanni Tosolini, immortalato in una fotografia scattata a Milano nel 1974 durante l’inaugurazione dell’enoteca del mafioso Luciano Liggio. O infiltrando personaggi come il neofascista Gianni Maifredi, ex guardia del corpo di Paolo Emilio Taviani, che doveva incastrare altri personaggi equivoci della recente storia italiana – i Mar di Carlo Fumagalli – con dell’esplosivo recuperato all’uopo, ma di fatto lasciando loro mano libera per anni in diverse attività criminali. Già allora c’era chi parlava – seppur a mezza bocca – di una sorta di patto tra carabinieri e Mar: era il giornalista Giorgio Zicari dalle colonne del Corriere della Sera. (ndr: Zicari che proprio nei giorni della strage di Piazza della Loggia confessa di far parte dei servizi segreti e lascia il Corriere. Il suo nome figura negli elenchi P2 ). E molti anni dopo, nel 1998, lo stesso Fumagalli finirà per accusare l’ex capitano di responsabilità nella strage. Delfino inoltre – dicono alcuni rapporti del Ros e ne è convinto il giudice milanese Guido Salvini – sarebbe stato il «capitano Palinuro», personaggio rimasto nell’ombra che fungeva da collegamento tra gli ambienti dell’eversione neofascista e il Sid.
Ma venendo alla strage di piazza della Loggia, nelle indagini Delfino punta all’inizio verso il gruppo dell’avanguardista Giancarlo Esposti, ucciso il 30 maggio 1974 a Pian Del Rascino (Rieti) in uno scontro con i carabinieri (a sparargli fu il maresciallo Antonio Filippi). Ma proprio questo fatto – che portò all’arresto delle persone che si trovavano con Esposti – rese impercorribile quella pista. In una specie di delirio investigativo (rispolverato talvolta ancora oggi per ragioni politiche) si ipotizzò il coinvolgimento del brigatista rosso Renato Curcio e si procedette con strani colloqui riservati. Come quelli avvenuti con il senatore del Msi Giorgio Pisanò e con il deputato Mirko Tremaglia raccogliendo da questi suggerimenti: si doveva indagare su «deliquenti comuni pregiudicati, pazzoidi, fanatici» e che si prestasse attenzione a «qualcuno della sinistra che coglie l’occasione per seminare il caos».
E poi di nuovo la «pista Buzzi». Nella deposizione di Delfino alla corte d’assise di Brescia riportata nei libri Eversione di destra, terrorismo e stragi, pubblicato nel 1986 a cura di Vittorio Borraccetti, e La sottile linea nera di Mimmo Franzinelli, si spiega cosa significhi orientarsi verso la quella pista con un’opera di «lavorio ai fianchi»: «Ricostruire il gruppo che gravitava attorno a Buzzi; trasferire l’immagine di Buzzi da quella di ladro a quella di persona maneggiante esplosivo; riuscire ad arrestare i membri del gruppo Buzzi per motivi diversi dalla strage».
Ne seguono liste di sospettati, tempestive confessioni e puntuali ritrattazioni. Come accadde appunto ad Angiolino Papa, che nel marzo 1975 scrisse dal carcere una lettera in cui denunciava la sua condizione: «Non credete alle balle che scrivono i giornali perché sono innocente. Sono stati i giudici a scrivere tutte quelle menzogne, mi hanno costretto». Seguiranno casi analoghi, come quello di Ombretta Giacomazzi, in cui si faceva esplicito riferimento alle pressioni subite dal capitano Delfino (ma anche da avvocati difensori, per la verità) affinché si facessero nomi e circostanze non veri.
A quel punto, a Brescia, il terreno si era fatto scivoloso per l’ufficiale dei carabinieri e all’interno della procura lombarda c’era chi iniziava a credere che si volessero coprire responsabilità inconfessabili nella strage, come quelle di uomini dello Stato. Molti anni più tardi, nel 2007, quando si concluse la quinta istruttoria sulla strage, ecco che si formulò la «pista Tritone», dal nome di un collaboratore del Sid, Maurizio Tramonte, in cui si esplicitava la copertura che Delfino avrebbe fornito a personaggi legati a Ordine Nuovo e Ordine Nero.
Se la pista Tritone ha dimostrato falle e inesattezze, comunque nel 2002 Delfino è stato incriminato per la strage di Brescia e già da qualche anno passava guai giudiziari. Iniziati con il sequestro Soffiantini, il militare è stato condannato per truffa aggravata a causa di una richiesta di denaro fatta alla famiglia dell’imprenditore bresciano in cambio della liberazione dell’ostaggio. E dal 25 novembre 2008 è sotto processo per piazza della Loggia insieme a Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte, Carlo Maria Maggi e Pino Rauti (nella rosa dei rinviati a giudizio c’era anche Giovanni Maifredi, morto l’estate scorsa).
(Questo articolo è stato pubblicato sul Domani di Maurizio Chierici nella rubrica I peggiori protagonisti della nostra storia.)
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