Alle 7 del mattino, nello stabile di piazza dell’Insurrezione, a Padova, l’attività della coppia di custodi è già iniziata e a quell’ora le pulizie dovrebbe essere concluse. Eppure il 13 settembre 1969 la signora Onorina non ha ancora visto il marito far rientro in guardiola. Strano, deve aver pensato. E così lascia il piccolo locale che affaccia sul portone e va a controllare che sia tutto a posto. Esce, dunque, e l’altra stranezza che nota è la pattumiera, abbandonata all’ingresso. Suo marito, invece, quando spazzava e i pavimenti dell’edificio, se ne portava dietro due, sempre insieme.
Pochi passi ancora e la signora Onorina trasecola. Alberto Muraro, suo marito, ex carabiniere e poi portinaio di quello stabile, giace in fondo alla tromba dell’ascensore. E la donna capisce subito che è morto dopo essere volato da chissà quanti metri. «Ecco, è successo, Alberto l’aveva detto». È vero. La morte di Alberto Muraro è una profezia che si avvera. Solo qualche giorno prima si era confidato con un amico. «Va a finire che mi troverete precipitato dentro la tromba dell’ascensore o delle scale dopo che mi hanno dato una legnata in testa». Anche la legnata fa parte della profezia avveratasi perché la botta c’è davvero e non nel punto in cui il capo ha impattato con il pavimento.
Ma chi può voler morto un uomo tranquillo che, congedatosi dalla vita militare, si ritira a fare un lavoro certo faticoso, ma in genere privo di avventure? Alberto Muraro non è solo un portinaio, è anche un testimone. L’unico testimone di un fatto all’apparenza banale, ma che avrebbe forse potuto cambiare il corso degli anni a seguire, quelli che vanno sotto la definizione di strategia della tensione.
Due giorni dopo la sua morte, il 15 settembre 1969, avrebbe infatti dovuto presentarsi al procuratore della Repubblica di Padova, Aldo Fais, per raccontare di nuovo l’episodio a cui aveva assistito. Risaliva al 16 giugno precedente. Verso le 7 di sera, mentre Muraro era seduto in guardiola, di fronte a lui era passato un giovane. Entrava e con fare disinvolto, come se conoscesse l’edificio, si era diretto verso i piani superiori. Proprio perché sembrava conoscere la sua destinazione, il portinaio non l’aveva fermato e forse non si sarebbe nemmeno ricordato di lui se non fosse stato per la camicia a fiori che il ragazzo indossava senza giacca. Tre quarti d’ora dopo circa lo aveva visto di nuovo. Stava uscendo, questa volta, e in mano teneva un pacco avvolto nella carta.
Fino a qua, dunque tutto all’apparenza banale. Se non fosse che, giunto sul portone, il giovane viene avvicinato da tre agenti della questura di Padova in borghese e portato via. Poi, verso le 2 del mattino successivo, i poliziotti tornano e chiedono a Muraro di seguirli: deve raccontare ciò che ricorda di quel passaggio. Ma soprattutto deve raccontare quante persone, in quell’arco di tempo, sono transitate davanti a lui.
Muraro saprà più tardi che su questo elemento non c’è chiarezza. Il ragazzo con la camicia a fiori, che di nome fa Giancarlo Patrese, dice di esserci andato con un’altra persona, Nicolò Pezzato, ma quest’ultimo nega. Lo aspettavano per cena ed era già in ritardo, impossibile che lo avesse accompagnato dentro l’edificio. E Muraro verrà a sapere anche che dentro al pacco in mano al giovane c’erano una bomba rudimentale e una pistola. Ma non è tutto, la storia è destinata a complicarsi.
Nicolò Pezzato e Giancarlo Patrese sono entrambi noti alla polizia per le loro frequentazioni politiche, a metà tra il Movimento Sociale Italiano e Ordine Nuovo. Ma mentre il secondo è solo un nome su una scheda, Pezzato da qualche mese è la gola profonda di un commissario, Pasquale Juliano, il capo della squadra mobile. Il quale, a sua volta, sta indagando sull’attentato del 15 giugno 1969 nello studio del rettore dell’università, Renato Opocher. Sarebbe roba da ufficio politico, quell’indagine, ma il questore di Padova, stanco di un anno di esplosioni senza che si arrivi a nulla, chiama Juliano perché, a mente fresca, veda di cavarci qualcosa.
Il commissario si mette all’opera e nel giro di pochi giorni viene agganciato da una sua vecchia conoscenza, Pezzato, nel cui curriculum figura qualche reato comune. Pezzato, conoscendo però anche l’ambiente neofascista, inizia a fare i nomi dei presunti attentatori dell’università, oltre che di qualche altro episodio. Sono azioni riconducibili a tale Massimiliano Fachini, leader di estrema destra, e a personaggi legati alla cellula padovana di Ordine Nuovo. Il confidente, che presto si fa affiancare da un altro “redento” dell’estremismo politico, Franco Tommasoni, traccia per Juliano lo scenario dell’eversione cittadina che arriva a comprendere anche un avvocato, Franco Freda, e un libraio di Treviso, Giovanni Ventura. Indaghi, Juliano, indaghi, che ne scoprirà delle belle.
E così fa il commissario arrivando a scoprire che sono in preparazione nuovi attentati, alcuni dei quali faranno parlare a lungo. Raccoglie le dichiarazioni dei confidenti, il funzionario di polizia, organizza pedinamenti, verifica le informazioni di cui entra in possesso e non tralascia mai di fare rapporto scritto al questore, producendogli tutte le prove che raccoglie e chiedendo di essere affiancato dal capo dell’ufficio politico, Saverio Molino. Altrimenti non riuscirà a destreggiarsi tra appartenenze, sigle politiche, connessioni con altri gruppi eversivi. Continua così fino alla metà di giugno quando si diffonde la notizia della morte di Arturo Michelini, il segretario del Msi. I suoi informatori gli hanno detto che, in vista dei funerali, è arrivato a Padova dell’esplosivo e che potrebbe esserci «fragorose sorprese».
Ma nella rete di Juliano ci finisce un personaggio di secondo piano, Giancarlo Patrese, di cui non ha mai sentito parlare, e quel ragazzo accusa l’informatore del commissario di avergli messo in mano a sua insaputa una bomba. All’inizio Nicolò Pezzato respinge l’addebito e punta il dito verso Fachini e altri neofascisti padovani, che finiscono al gabbio. Ma dopo una notte trascorsa tutti insieme nella stessa cella, Pezzato cambia versione: nella sua foga, Juliano avrebbe organizzato un trappolone ai danni degli estremisti fabbricando le prove della loro colpevolezza. Non sarebbe mai esistita alcuna cellula terroristica, se non nei desideri dello zelante commissario.
Pasquale Juliano è incastrato. Prima viene messo in congedo, poi incriminato e infine sospeso dal servizio e dallo stipendio. Se ne va da Padova, ripara con la famiglia a Ruvo di Puglia, ma continua a dichiararsi innocente e scrive due memoriali in cui ricostruisce quei mesi di indagini. In essi ribadisce di prestare attenzione perché «sono imminenti degli attentati» e, riconosciuto col senno del poi, il più celebre di questi attentati sarà quello avvenuto a Milano, in piazza Fontana, il 12 dicembre 1969. Nessuno però sembra credergli e c’è solo una persona che può confermare la sua ricostruzione, per quanto limitata all’episodio del ragazzo con la camicia a fiori. Alberto Muraro. Che prima di volare dalle scale, il 13 settembre 1969, oltre ad aver predetto la sua fine, aveva subito pressioni di duplice matrice: da un lato, dirà sempre all’amico confidente, gli inquirenti premevano perché modificasse la sua versione dei fatti; dall’altro qualcuno gli inviava lettere anonime con messaggi di morte.
(Questo articolo è stato pubblicato sul numero di dicembre 2009 del mensile La voce delle voci)
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