Nei confronti della stampa (o, meglio, dei giornalisti) l’impiego degli strumenti finanziari non può, in questa fase, essere previsto nominatim. Occorrerà redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio, o, meglio, a catena, da non più di 3 o 4 elementi che conoscono l’ambiente. Ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di “simpatizzare” per gli esponenti politici.
(Piano di rinascita democratica, procedimenti, articolo 2)
Enzo Biagi, decano del giornalismo italiano scomparso a Milano nel novembre 2007, è diventato per tutti il paladino dell’informazione libera dopo la sua morte. Paladino anche di chi – e anche questo è un esercizio lieve di memoria – lo aveva ostracizzato dopo l’editto bulgaro del 2002. A quei tempi, Biagi conduceva da nove anni ormai una striscia televisiva, “Il fatto”, che andava in onda dopo il Tg1 e, unica nella storia recentissima del piccolo schermo, era una potente concorrente in termini di share dell’inscalfibile “Striscia la notizia” di Antonio Ricci, campione di ascolti fin dal suo debutto, nel novembre 1988. La breve trasmissione di Biagi si era guadagnata lustro sul campo, ma che i suoi contenuti iniziassero a non piacere lo si era annusato già dal 2001 a causa di due interviste che fece a Indro Montanelli e a Roberto Benigni. Il primo intervistato, altro giornalista di lungo corso, disse senza troppi giri di parole che il candidato della Casa delle Libertà era simile a un virus e che avrebbe instaurato una “dittatura morbida”; il secondo, l’attore che nel 1997 vinse l’Oscar con il film “La vita è bella”, si allargò troppo nella sua gag satirica che prendeva di mira i toni della campagna elettorale del centro-destra, compresi temi scomodi come il conflitto d’interessi e il contratto con gli italiani firmato unilateralmente dal candidato premier di fronte a una telecamera. Faziosità, fu l’accusa mossa dallo schieramento politico guidato dal cavaliere a poche settimane dalle elezioni politiche che avrebbero comunque portato al secondo governo Berlusconi.
Malgrado il risultato favorevole delle urne, i sodali di Silvio Berlusconi se la legarono al dito e il primo ad augurarsi il licenziamento di Biagi fu Maurizio Gasparri, esponente di Alleanza Nazionale e prossimo a diventare ministro delle comunicazioni nelle cui vesti firmò una legge controversa sul riassetto radiotelevisivo. Ne seguì un’indagine del garante per violazione della par condicio che però diede ragione all’anziano giornalista, ma da palazzo Chigi si chiedeva comunque la testa del conduttore. Così, il 18 aprile 2002, mentre Silvio Berlusconi era in visita ufficiale a Sofia, rilasciò all’Ansa una dichiarazione passata agli annali come “editto bulgaro” in cui si invocava il pugno di ferro contro “un uso criminoso della televisione pubblica”. Biagi non era il solo destinatario degli strali del premier – che se la prese anche con il giornalista Michele Santoro e con il comico Daniele Luttazzi – ma forte della sua professionalità rispose a sua volta con una dichiarazione che merita di essere riportata per ampi stralci:
Il presidente del consiglio non trova niente di meglio che segnalare tre biechi individui: Santoro, Luttazzi e il sottoscritto. Quale sarebbe il reato? […] Poi il presidente Berlusconi, siccome non intravede nei tre biechi personaggi pentimento e redenzione, lascerebbe intendere che dovrebbero togliere il disturbo. Signor presidente, dia disposizioni di procedere perché la mia età e il senso di rispetto che ho verso me stesso mi vietano di adeguarmi ai suoi desideri […]. Sono ancora convinto che perfino in questa azienda (che come giustamente ricorda è di tutti, e quindi vorrà sentire tutte le opinioni) ci sia ancora spazio per la libertà di stampa; sta scritto – dia un’occhiata – nella Costituzione. Lavoro qui in rai dal 1961, ed è la prima volta che un presidente del consiglio decide il palinsesto […]. Cari telespettatori, questa potrebbe essere l’ultima puntata del Fatto. Dopo 814 trasmissioni, non è il caso di commemorarci.
(Enzo Biagi, maggio 2002)
Il 31 maggio 2002 “Il Fatto” smise di andare in onda e con lui furono tagliate anche le altre due voci “criminose” della televisione di Stato. Ma Enzo Biagi non era nuovo a epurazioni ben più datate (e che men che meno furono ricordate a fine 2007 dall’allora capo dell’opposizione, ancora Silvio Berlusconi, nel breve interregno di Romani Prodi e del governo di centro-sinistra). Biagi infatti subì un precedente tentativo di allontanamento ed erano gli anni della P2. Nel 1981, quando esplose lo scandalo della loggia gelliana, scrisse: “Gelli chiese a Di Bella [Franco Di Bella, che sostituì Pietro Ottone dopo che “Il Corriere della Sera” passò in mani piduiste, N.d.A.] di cacciarmi nel maggio ’81. Ma ho il dovere di dichiarare che mai un mio articolo ha subito tagli: Di Bella non ha respinto un testo né sono stato pregato di usare benevolenza o durezza nei confronti di qualcuno”. Di fatto Biagi, negli anni precedenti, aveva dato fastidio, come Giangiacomo Foà e Maurizio Chierici. Era il periodo in cui si assisteva agli effetti dei tentativi di manipolazione delle informazioni e, dopo aver aiutato l’amico Indro Montanelli a fondare “Il Giornale”, passò a collaborare con “La Repubblica” (dove rimase fino al 1988) e con la Rai, dalle cui frequenze già nella seconda metà degli anni Ottanta aveva raccontato di presunti favori che Bettino Craxi aveva concesso a Silvio Berlusconi per le sue televisioni.
Anche tra giornalisti e conduttori del piccolo schermo che ancora oggi sono in attività – o l’hanno appena lasciata – ci sono nomi di persone che provengono dall’era in cui Gelli puntava a controllare la stampa attraverso la fratellanza massonica. Fabrizio Trifone Trecca (tessera numero 1748, fascicolo 0758), il medico che pare abbia presentato a Licio Gelli il futuro direttore dell’Occhio, Maurizio Costanzo (tessera numero 1819, fascicolo 0626), e che ebbe una propria rubrica di salute e benessere su Rete4. Altro nome è quello di Massimo Donelli (tessera numero 2207, fascicolo 0921), che iniziò alla “Gazzetta dello Sport” per lavorare in seguito in moltissime testate: “Il Secolo XIX”, “Il Corriere della Sera”, “Il Mattino”, “Il Giornale”, “Il Sole 24 Ore”, “Epoca” (che diresse anche) e “Panorama”. A capo di “Tv Sorrisi e Canzoni”, nel 2006 è diventato direttore dell’ammiraglia delle reti Fininvest, Canale 5, dove ha tratto la soddisfazione di aver superato in ascolti RaiUno, ma anche qualche delusione per trasmissioni d’intrattenimento poco seguite.
Roberto Gervaso (tessera numero 1813, fascicolo 0622), rispetto agli altri, ebbe un ruolo ulteriore. Dopo aver lavorato ai quotidiani “La Nazione”, “Il Resto del Carlino” e infine “Il Corriere della Sera” per raggiungere, anni più tardi, le reti Mediaset. E come affermò nel 1993 il testimone Silvio Berlusconi davanti alla seconda corte d’assise che processava i capi della loggia massonica per cospirazione politica, fu Gervaso a farsi carico della domanda di affiliazione del futuro presidente del consiglio. Ma – ha sostenuto a più riprese – lo fece così, in modo inconsapevole. Il che, malgrado l’evidenza del pagamento della quota sulla Banca dell’Etruria rinvenuta dalla guardia di finanza e il juramento firmado contenuto nell’archivio uruguaiano, viene smentito dallo stesso Gelli, che affermò che l’attuale presidente del consiglio “è stato normalmente iniziato a Roma. Credo presentato dal professor Fabrizio Trecca. Assistevano il gran maestro Giordano Gamberoni, per il Grande Oriente d’Italia, e il direttore delle partecipazioni statali, Giovanni Fanelli”. Va detto poi che chi ha raccontato questa storia – gli scrittori e giornalisti Giovanni Ruggeri e Mario Guarino, il periodico “Epoca” e i quotidiani “L’Unità” e “La Notte” – vengono querelati per vedere finire in nulla le cause contro di loro. Inoltre, a chi oggi sostiene a mo’ di attenuante morale che Gervaso ebbe un coautore di prestigio nella sua storia d’Italia, Indro Montanelli, andrebbe ricordato che ciò, sì, avvenne per sei volte, ma tra la fine degli anni Sessanta e il 1970 mentre l’iscrizione di Gervaso alla loggia risale alla seconda metà degli anni Settanta.
I rimpalli non sono una peculiarità di questa affiliazione: dichiarazioni, smentite, nuove conferme e ritrattazioni compaiono anche nel caso di Paolo Mosca (tessera numero 2100, fascicolo 0813), ex direttore della “Domenica del Corriere”, che ai tempi delle indagini e del processo palleggiò a Costanzo accuse e insinuazioni vedendosele rispedite indietro. Infine Luigi Nebiolo (tessera numero 2097, fascicolo 0810), “Radiocorriere Tv” e Tg1. A questi, scrivono ancora Barbacetto e Travaglio, andrebbero aggiunti anche Franco Colombo, già corrispondente della Rai a Parigi, e Alberto Sensini, opinionista politico, anche loro bruciati sul filo di lana delle fiamme gialle.
Piduista era anche un altro giornalista, Mino Pecorelli (tessera numero 1750, fascicolo 0235), direttore della discussa agenzia di stampa “Osservatorio Politico” (Op), ma lui non può più parlare. Anche i più disattenti ricorderanno infatti che fu ammazzato. Accadde a Roma il 20 marzo 1979 e dell’esecuzione (quattro colpi calibro 7.65 inferti da distanza ravvicinata, poco lontano dalla redazione del giornale) si accusarono molte persone: da gente della Magliana ai Nuclei Armati Rivoluzionari di Valerio Fioravanti. Per passare attraverso Licio Gelli, Giulio Andreotti, Gaetano Badalamenti su indicazione di Tommaso Buscetta. Ma i processi non giunsero a nulla: escluso il coinvolgimento dei Nar e dispersa la pista della criminalità romana, il 30 ottobre 2003 la cassazione annullò senza rinvio la condanna a ventiquattro anni di reclusione anni inflitta dalla corte d’assise d’appello di Perugia al senatore a vita e all’ex boss di Cinisi.
Insomma, si vede come il mondo dei media sia e sia stato ben presidiato. Ai tempi della scoperta degli elenchi a Castiglion Fibocchi, del resto, risultò nel complesso che affiliati alla P2 c’erano otto direttori di testata, sette dipendenti della Rai e altri ventidue giornalisti, iscritti sia all’albo dei professionisti che a quello dei pubblicisti. E prima che si sollevasse il coperchio del pentolone massonico, c’era un comitato, il gruppo dei diciassette, altrimenti detto dell'”informazione e mezzi di comunicazione di massa”. Oltre a diverse delle firme già citate, ne facevano parte altri esponenti che con le professioni della carta stampa e dell’emittenza radiotelevisiva non hanno nulla a che vedere. O almeno così sembra.
Tra questi compare l’ammiraglio Antonino Geraci (tessera numero 2096, fascicolo 0809), capo del Sios (servizio informazioni e osservazioni speciali) della marina ai tempi del sequestro di Aldo Moro e inserito nel comitato informazione voluto da Francesco Cossiga durante i 55 giorni di prigionia dell’esponente democristiano. E compare anche Marcello Celio (tessera numero 2101, fascicolo 0815), vice capo di stato maggiore della marina. Forse ai due ufficiali fu affidato il ruolo di consulente in tema di media. Anche se c’è chi, come il giornalista Daniele Martinelli, ipotizza che si trattò di uno scambio di favori tra i due ammiragli e il già citato Fabrizio Trifone Trecca, entrato a far parte dello staff medico della marina senza aver mai intrapreso la carriera militare.
A proposito della crisi innescata dal sequestro di via Fani e dei gruppi operativi anticrisi, qualche dettaglio ulteriore sull’infiltrazione piduista lo fornisce nel libro “La tela del ragno” Sergio Flamigni, che fece parte delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, sulla loggia di Licio Gelli e antimafia. Scrive infatti l’autore che in quel periodo, oltre ai due militari di cui si è parlato sopra, “numerosi consiglieri e collaboratori del ministro dell’interno (Francesco Cossiga) […] erano affiliati alla P2. Anzitutto Federico D’Amato, consigliere e collaboratore di Cossiga […]. Altri […] erano Franco Ferracuti (tessera 2137), Ferdinando Guccione (tessera cod. E 19-77), Giulio Grassini (tessera 1620), Giuseppe Santovito (tessera 1630), Giuseppe Siracusano (tessera 1607), Giovanni Torrisi (tessera 1825), Walter Pelosi (cod. E 19-79), Raffaele Giudice (tessera 1634), Donato Lo Prete (tessera 1600)”. Si sta parlando, oltre che di docenti universitari, di prefetti, generali dell’arma dei carabinieri e della guardia di finanza e capi di Stato maggiore della difesa. Come andò a finire il sequestro di Aldo Moro si sa, che il commando che massacrò prima la scorta e poi “eseguì la sentenza” fosse delle Brigate Rosse pure, mentre il quadro d’insieme è ancora in fase di studio, nonostante anni di attività investigative e il supporto fornito fin da subito di alti esponenti delle istituzioni.
Ma torniamo alle mani sui media e alla rottura del monopolio Rai con l’esplosione delle televisioni commerciali. Proprio nel 1978 a Milano viene fondata la Fininvest che acquista un’emittente locale, Telemilano 85 (dalla frequenza su cui trasmetteva). Fondata nel 1974 da Giacomo Properzj (repubblicano, con incarichi nelle amministrazioni locali – fu presidente della provincia di Milano – e nelle municipalizzate cittadine e oggi collaboratore del quotidiano “Il Riformista”) con il nome di Telemilanocavo per trasmettere nel bacino di Segrate-Milano 2, opera della Edilnord di Silvio Berlusconi. Per farlo sfruttava a quei tempi una recente sentenza della corte costituzionale in base alla quale i privati potevano fare tv via cavo dato che solo le radiofrequenze erano oggetto del monopolio Rai.
La legge dell’anno successivo, firmata da Giovanni Leone, Aldo Moro, Ruggero Orlando, Bruno Visentini, Luigi Gui, Antonio Bisaglia, Emilio Colombo, Oronzo Reale e Giulio Andreotti, ci aveva provato a mettere in bastoni fra le ruote di Properzj ponendo dei limiti quantitativi (un massimo di centocinquantamila persone per il bacino d’utenza) e tecnici (sulla tipologia di cavi da utilizzare). Ma furono superate nel 1976 da un’altra sentenza della corte costituzionale: le tv private potevano trasmettere via etere pur limitandosi a trasmissioni locali. E se le non catastrofiche difficoltà finanziare di Telemilanocavo nei confronti della Edilnord rischiavano di far fallire comunque l’impresa, per evitarlo venne ceduta a un prezzo simbolico (una lira) e iniziò a dare sostanza al nucleo originario da cui è scaturita Canale 5.
La partenza di Telemilano85 è scattante e vi contribuisce uno dei volti più noti del piccolo schermo, Mike Bongiorno, in un sodalizio televisivo che dura tutt’oggi con le televendite sul canale del digitale terrestre Mediashopping. Saltando però di nuovo al periodo a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, Telemilano conferma subito il suo carattere scalpitante: nel 1980, infatti, si fondono quattro piccole realtà settentrionali – TeleEmiliaRomagna, TeleTorino, VideoVeneto e la ligure a&g Television – dando vita a quella che diventerà l’ammiraglia delle reti Mediaset.
E a questo punto arriviamo allo scavalcamento di un’altra limitazione normativa: quello della diretta, nel 1980 ancora riservato alla Rai. La storia di come avviene merita di essere raccontata e lo scardinamento della posizione della tv di Stato avviene a colpi di pallone. Dal 30 dicembre ’80 al 10 gennaio successivo, infatti, a Montevideo, capitale dell’Uruguay, si terrà il Mundialito, che altro non è che un’operazione di facciata, spiegano Mario Guarino e Fedora Raugei. Lo scopo: edulcorare anni di persecuzioni contro i Tupamaros e dissindenti vari attuate dalle giunte militari che si alternano fino al 1984 e con cui Licio Gelli in primis ha ottimi rapporti politici e commerciali. Che l’evento sportivo sia un intervento di maquillage è facilmente intuibile già allora: convocate le nazionali di calcio che hanno vinto la coppa del mondo a partire dal 1930, solo l’Inghilterra rifiuta mentre le altre non si fanno troppo problemi. Sostituita la squadra britannica con l’Olanda, parteciperanno anche Argentina, Brasile, Germania e Italia.
E comincia un’altra partita, preliminare al fischio d’inizio: la vendita dei diritti radiotelevisivi. Che viene gestita con particolare disinvoltura da un imprenditore greco uruguaiano, Angelo Vulgaris. Fatta fuori l’Eurovisione, ad aggiudicarseli è Rete Italia, che equivale a dire Canale 5, per una cifra sorprendente per i tempi: 900 mila dollari. Una cifra che taglia fuori la Rai, abituata a somme di qualche ordine di grandezza inferiori, e che fa salutare l’operazione dalla stampa controllata dalla P2 – ma non solo – come una boccata d’aria nel panorama televisivo italiano ed europeo. La questione assume dimensioni sempre più ampie per finire in un patto a cui tutti applaudono: la Rai concederà a Berlusconi l’uso del satellite, ma questi dovrà trasmettere in differita di pochi minuti, con l’eccezione della Lombardia, i cui tifosi assisteranno alle partite in diretta.
Nota a margine, ma neanche così tanto: quarantuno calciatori italiani scrissero una lettera aperta contro il regime uruguaiano che venne ignorata dal “Corriere della Sera”. Il quale preferì pubblicare una serie di servizi di costume sui pacchetti turistici scontati riservati ai supporter della nazionale. Gli azzurri di Enzo Bearzot non arrivarono però in finale: persero 2 a 0 contro l’Uruguay e pareggiarono 1 a 1 con l’Olanda. Ad aggiudicarsi la coppa fu – quasi fosse da copione – la squadra di casa, battendo per 2 a 1 il Brasile.
A dispetto del deludente risultato per la nazionale italiana, un successo ci fu, contribuire a questo obiettivo:
coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso una agenzia centralizzata […]; dissolvere la rai-tv in nome della libertà di antenna ex art. 21 Costituzione.
(Piano di rinascita democratica, obiettivi, articolo 2, punto b)
Diceva Marco Pannella in una tribuna politica del 1981: “Il gruppo editoriale più importante d’Italia […] si trova a livello dei giochi di proprietà in stretta connessione con quella grande vicenda criminale che il nostro paese ha conosciuto degli agganci con la P2”.
Il leader radicale si riferiva ai tempi ovviamente alla Rizzoli, scalata da gelliani come Umberto Ortolani e Bruno Tassan Din con i soldi di Roberto Calvi del Banco Ambrosiano e con le manipolazioni operate a danno di Angelo Rizzoli. Ma le mire della P2 andavano molto oltre. Negli obiettivi programmatici di Gelli, infatti, rientrava a raggio ben più ampio tutta la stampa, che
va sollecitata al livello di giornalisti attraverso una selezione che tocchi soprattutto: Corriere della Sera, Giorno, Giornale, Stampa, Resto del Carlino, Messaggero, Tempo, Roma, Mattino, Gazzetta del Mezzogiorno, Giornale di Sicilia per i quotidiani; e, per i periodici: Europeo, Espresso, Panorama, Epoca, Oggi, Gente, Famiglia cristiana. La rai-tv non va dimenticata.
(Piano di rinascita democratica, obiettivi, articolo b)
Oggi l'”agenzia centralizzata” che aveva vinto il match per i diritti del Mundialito, viste numeri alla mano la potenza e l’estensione, potrebbe ricordare Mediaset, nata come società a responsabilità limitata nel dicembre 1993 e diventata società per azioni due anni più tardi. Lo scopo della sua fondazione: scorporare le tre reti analogiche Canale 5, Italia 1 e Rete4. È oggi un colosso editoriale con un patrimonio consistente: ne fanno parte la concessionaria di pubblicità Publitalia ’80, Rti (Reti Televisive Italiane), creata come licenziataria delle concessioni televisive e che poi ha diversificato le proprie attività nel settore delle telecomunicazioni e del multimedia; Medusa Film (produzione e distribuzione cinematografica e home entertainment), la casa di produzione Taodue e l’omologa Endemol che hanno ideato e realizzato fiction e format televisivi delle reti Mediaset; l’emittente spagnola Telecinco, sopravvissuta dopo i controversi fallimenti degli anni Ottanta della francese LaCinq e della tedesca Tele5. Con un fatturato al 2007 di 4.082,1 miliardi di euro, un utile di 506,8 miliardi e oltre seimila dipendenti, Mediaset non è l’unico gioiello di una delle famiglie divenute tra le più potenti del paese. Fininvest, che tuttora è viva, possiede il gruppo editoriale Arnoldo Mondadori Editore e per suo tramite la Giulio Einaudi Editore, è attiva nel settore assicurativo e bancario con la Mediolanum, detiene l’Associazione Calcio Milan e il teatro milanese Manzoni.
“Il Giornale”, il quotidiano fondato nel 1974 da Indro Montanelli e rilevato da Silvio Berlusconi nel 1978, dal 1990 è passato al fratello Paolo, dopo l’approvazione della legge Mammì per la “disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato”. Il più giovane dei fratelli Berlusconi, a sua volta, commercializza decoder per il digitale terrestre a partire dal gennaio 2005, proprio quando Silvio festeggia la nascita di Mediaset Premium.
Un vero e proprio impero, insomma, che – secondo la classifica del 2007 stilata su dati di fatturato dall’Istituto tedesco per la politica mediale e della comunicazione (ifm) con sede a Berlino e Colonia – pone Mediaset al ventisettesimo posto, prima tra le tre uniche realtà italiane in lista: seguono la rai (trentottesima) e rcs Media Group (quarantaquettresima). Non c’è che dire: lo stato dei media italiani è ben delineato dalla statistica.
E nel corso degli anni Novanta le scalate all’olimpo dell’informazione tricolore sembrano essere state aiutate da situazioni che non hanno a che fare con proprietà e azionariati. A questo proposito accade talvolta che il gergo giornalistico aiuti a dare un nome a queste situazioni e il termine inciucio, espressione di origine napoletana, è stato utilizzato per identificare uno strano patto tra destra e sinistra consolidatosi nella seconda metà del decennio, durante il governo dell’Ulivo. Il primo a utilizzarlo fu il 28 ottobre 1995 Mino Fuccillo di “Repubblica” in un’intervista a Massimo D’Alema e finì per diventare sinonimo di convergenza tra opposte fazioni politiche. Una convergenza che prevedeva da parte del centro-sinistra la rinuncia a una legge che regolamentasse le frequenze televisive e ponesse termine al “conflitto di interessi”, grande nodo irrisolto dell’ex e futuro premier azzurro (conflitto a tutt’oggi non ancora sanato).
Ufficialmente questo modo di gestire la cosa pubblica viene presentato come accordo bipartisan e in quegli anni ha avuto l’effetto – voluto o meno – di permettere una buona quotazione a Mediaset, in procinto di entrare in Borsa. Inoltre ha consentito per perpetuare, almeno fino al momento in cui si scrive, l’illegittimità della posizione di Rete4: nel 1999 le sue frequenze sarebbero dovute andare a Europa7, emittente dell’imprenditore abruzzese Francesco Di Stefano, che le aveva avute in concessione. Non sono stati sufficienti a dirimere la questione sentenze della corte costituzionale, piani di assegnazione delle frequenze, ordinanze del consiglio di Stato e interventi della corte di giustizia europea con tanto di sanzioni al governo italiano. Tutto questo senza andare a indagare le nomine politiche compiacenti (come hanno rimarcato anche recenti indagini) dei vertici della televisione pubblica che concordavano con Mediaset trasmissioni, ospiti e fasce d’ascolto, eseguivano ordini come il già citato editto bulgaro e accettavano raccomandazioni in cambio di pressioni su gruppi e singoli parlamentari. Dunque, la cosa privata la si compra e quella pubblica la si occupa.
(Segue)
I post precedenti:
- Il programma di Licio Gelli – Una profezia avverata? – Prefazione
- Il programma di Licio Gelli: la storia che insegnano loro
- Il programma di Licio Gelli: più o meno sono tutti uomini di un presidente
Il programma di Licio Gelli – Una profezia avverata
Collana Polifonia, Socialmente, 2009
ISBN 978-88-95265-21-6