Il delitto Murri e il tramonto di un secolo

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Fatti di gente perbeneA questa vicenda il regista Mauro Bolognini dedicò un film uscito nel 1974 e lo intitolò “Fatti di gente perbene”. Perbene come la vittima, Francesco Bonmartini, un conte di origine padovana trapiantato per un po’ a Bologna, e come coloro che vennero condannati per il suo omicidio, in primis Tullio Murri e sua sorella Linda. Di autentica integrità era poi il padre dei due imputati, Augusto Murri, il “sommo dei clinici medici” che approdò nel capoluogo emiliano per insegnare nel suo ateneo e diventarne rettore tra il 1888 e il 1889.

Ma – elemento non secondario nella storia raccontata – quest’ultimo fu anche un innovatore nell’insegnamento e nell’educazione, ispirati entrambi a principi tardo positivisti, socialisti e laici. Per questo il “caso Murri” esplose sui giornali ben più che nelle aule di giustizia, anticipando di decenni campagne mediatiche che nel clamore troveranno i primi omologhi nelle traversie giudiziarie delle assassine Leonarda Cianciulli e Rina Fort (anni quaranta) o nella scandalosa morte di Wilma Montesi (1953). E fu un caso, quello dei Murri, che, al di là dello stabilire fatti e responsabilità in un assassinio, mise sotto accusa la libertà intellettuale di uno scienziato e il rifiuto di adeguarsi, tanto nella vita pubblica quanto in quella privata, al tradizionalismo della morente società ottocentesca.

Ma andiamo con ordine. Almeno dal punto di vista giudiziario, questa vicenda inizia il 2 settembre 1902 quando la polizia sfonda l’ingresso di un appartamento di Bologna, in via Mazzini. Già all’ingresso si ha conferma di quanto temevano la portinaia e l’amministratore del palazzo, insospettiti da un crescente miasma: il conte Francesco Bonmartini giace a terra, ucciso da numerose pugnalate, e lì si trova da giorni, a giudicare dallo stato del corpo. Dallo stato dell’appartamento invece si traggono le prime ipotesi: un letto sfatto, capelli lunghi sui cuscini, una bottiglia di vino e due bicchieri, un paio di mutandine femminili fanno pensare a un incontro extraconiugale. Inoltre un biglietto scritto da una donna fissa la data di un appuntamento per il 27 agosto precedente. Un giovedì, aggiunge la mano dell’autrice di quel breve scritto. Sempre le condizioni dell’alloggio sembrano raccontare anche altro: un cassettone forzato, i gioielli spariti, il denaro volatilizzato lasciano intuire una rapina.

La solidarietà alla moglie della vittima, Linda Bonmartini, che da nubile faceva di nome Murri, giunge celere. Giunge da congiunti e amici e all’inizio anche dalla stampa, che sottolinea la licenziosità del conte, ambiguo nei trascorsi professionali, dispotico nei rapporti affettivi e poco incline al rispetto dei suoi doveri coniugali. Ma gli investigatori non sono convinti dell’ipotesi della trappola mascherata da avventura boccaccesca. Intanto ci sono gli anelli che Bonmartini portava e che non sono stati toccati. Poi la biancheria intima rinvenuta era nuova, mai indossata. Inoltre il biglietto conteneva un’imprecisione: il 27 agosto 1902 cadeva di mercoledì e non di giovedì. Non da ultimo è vero che Bonmartini se la faceva alle spalle della moglie con altre donne, ma si dice che in famiglia i rapporti fossero tesi: Francesco e Linda si erano separati, qualche anno prima, e anche se la frattura si era in apparenza ricomposta, lei ripagava il marito con la stessa moneta coltivando una relazione con il suo primo amore, Carlo Secchi, un medico di vent’anni più anziano.

Il clima s’avvelena: Linda ripara in una clinica di Zurigo, nessun esponente della famiglia Murri partecipa ai funerali di Bonmartini e le chiacchiere traggono alimento delle missive che anonimi delatori inviano a polizia e giornali. Così le indagini ripartono e la svolta arriva da una fonte inaspettata: Augusto Murri, che l’11 settembre denuncia il figlio Tullio. In coscienza è sicuro delle sue accuse, il clinico, perché ha appena ricevuto dal figlio una lettera in cui confessa il suo delitto. Ma ha agito per legittima difesa, aggiunge: voleva una spiegazione dal conte, voleva che la smettesse di tradire la moglie, sua sorella, e voleva anche sapere perché intendeva trascinare Linda e i figli a Padova, lontano dall’affetto della famiglia d’origine proprio mentre la donna da una debilitante malattia scivolava nella depressione.

Ma le indagini non si limitano a stabilire le effettive responsabilità di Tullio. Come se si trattasse di un feuilleton, vengono coinvolti anche gli amanti dei due fratelli Murri: oltre a Secchi, viene indagata e arrestata Rosina Bonetti, domestica della contessa Bonmartini e innamorata di Tullio. Inoltre si costituisce Pio Naldi, un medico caduto in disgrazia per i suoi vizi di gioco visto insieme al giovane Murri la notte del delitto. Secondo l’accusa i due uomini si fanno chiudere da Rosina in casa del conte e agiscono come esecutori materiali di un ordine di Linda, ritenuta la mandante del delitto. Naldi ammette di aver incontrato Tullio, quella notte, ma solo per dissuaderlo dai suoi propositi mentre il fratello di Linda scriverà un memoriale in cui scagiona i suoi presunti complici e si dichiara unico responsabile del delitto che – ribadisce – fu un tentativo di difesa.

Non bastano però le parole di Tullio Murri per arrestare la macchina della giustizia. Né tanto meno quella della stampa che, capitanata dal cattolico L’Avvenire, inizia una serie di reportage sensazionalistici che avranno due effetti: arrivare a tre edizioni al giorno per ragguagliare sui dettagli più scabrosi della vicenda e impennare a tal punto punto le vendite da potersi permettere un abbassamento del prezzo di vendita. Così in tutta Italia si leggerà degli effetti di un’educazione “libera da freni religiosi”: effetti che trasformano la vivacità intellettuale dei fratelli in libertinaggio o l’affetto fraterno che si manifesta oltre i canoni del riserbo sociale in incesto. In una ricerca morbosa divenuta sempre più viscerale, sulle pagine dei giornali verranno pubblicati bollettini medici che monitorano le condizioni di Linda e riferiscono addirittura della regolarità del suo ciclo mestruale.

Un dramma in presa diretta, insomma, che ha poco da invidiare a quanto nei decenni a venire accadrà con l’avvento della televisione e con il suo consolidamento mediatico, a partire dal dramma di Vermicino: era il 1981 quando Alfredino Rampi, sei anni, venne inghiottito da un pozzo artesiano nelle campagne di Frascati e la sua agonia fu seguita minuto per minuto da milioni di telespettatori attraverso il piccolo schermo. Tornando però all’inizio del secolo, la vicenda dei fratelli Murri spacca l’opinione pubblica e la spacca proprio sulla figura di Linda: una donna istruita e ambiziosa, una moglie che mal digerisce la remissività a cui è chiamata, una madre che tenta di accettare le regole imposte dal marito per non perdere dei figli, un’adultera che non si piega al diktat familiare di allontanarsi da Secchi, troppo vecchio per lei. Una mantide, secondo l’accusa. E di lei scriveranno – quasi sempre in difesa – i poeti Ada Negri e Giovanni Pascoli, la rivoluzionaria russa Anna Kuliscioff, il deputato socialista Filippo Turati e l’antropologo Cesare Lombroso.

Ma nessuna campagna innocentista strapperà Linda e i suoi coimputati alla condanna. La premeditazione pare dimostrata dagli esperimenti fatti da Secchi e Tullio Murri con il curaro, provato su un agnello, e dalla siringa con cui Pio Naldi avrebbe dovuto praticare l’iniezione letale. Linda verrà indicata come diabolica incantatrice da Tisa Borghi, l’infermiera al servizio di Carlo Secchi, che rincarerà la dose: l’omicidio del 27 agosto 1902 non sarebbe che l’ennesimo tentativo, finalmente riuscito, di una serie di falliti attentati al conte. Sarebbe stata sempre Linda, poi, ad aver attirato il marito a Bologna con una scusa per consegnarlo al fratello e ai suoi complici.

Tutti colpevoli, dirà la sentenza a termine di uno processo-spettacolo iniziato il 21 febbraio 1905 e che per la prima volta avrà un pubblico a maggioranza femminile. Ma tutti diversi quando si tratta di atti di clemenza: Linda Murri viene liberata nel 1906 con un decreto di grazia sulla concessione del quale non sarebbe stato estraneo il padre. Tullio invece rimarrà in carcere fino al 24 aprile 1919. Se pure per lui le influenze paterne non saranno di poco peso, per la sua scarcerazione si mobiliteranno associazioni mediche, pubbliche istituzioni e organizzazioni sindacali e militari.

Per la giustizia, questa, è una storia chiusa: la storia di un omicidio complicato dal retroterra che lo genera e che viene ben rievocata dalla psicologa Valeria Babini nel suo “Il caso Murri. Una storia italiana” (Il Mulino, 2004). Se non fosse per la figlia di Tullio, Gianna, che con un libro “La verità sulla mia famiglia e sul delitto Murri” (Pendragon, 2003), ribadisce la versione della strumentalizzazione politica per colpire il dottor Augusto attraverso i suoi eredi, ma rilancia perorando l’innocenza del padre. Un tempo, scrive infatti l’autrice, sarebbero esistiti documenti a suffragio di quest’affermazione. Documenti però andati perduti da intrighi familiari successivi alla scarcerazione.

(Questo articolo è stato pubblicato sul blog ManiArmate del Manifesto)