Uno bianca e trame nere. Cronaca di un periodo di terrore

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Uno bianca e trame nere - Cronaca di un periodo di terroreIn libreria sarà disponibile nel corso del mese di novembre. Contestualmente verrà messo online il pdf completo, essendo rilasciato con licenza Creative Commons. È Uno bianca e trame nere – Cronaca di un periodo di terrore, che inizia a essere presente sul sito del mio editore, Stampa Alternativa, tra le anteprime. La storia, come dice già il titolo, riguarda una vicenda che, iniziata nell’ottobre 1987, si conclude nel novembre 1994 lasciando dietro di sé 24 morti e 102 feriti. Una strage che, a differenza di quelle registrate in precedenza, è diluita nell’arco di sette anni e che, a fronte di motivazioni ufficiali attribuite esclusivamente al lucro, mantiene ancora oggi aspetti non chiari e comunque in diversi casi non spiegabili con ragioni pecuniarie.

La prefazione è stata scritta da Andrea Purgatori, che a lungo lavorò su Ustica ma che indagò in veste di giornalista anche su molte altre vicende rientrate poi tra i misteri italiani. Il testo che segue, invece, è l’introduzione che ho scritto ad apertura del libro per lavorare al quale ho utilizzato alcuni post qui pubblicati nei mesi scorsi.

Quando i conti non tornano mai

Iniziamo dalla fine. Di Uno bianca a lungo non si è più parlato. O quasi. E invece ora, nel giro di pochi mesi, si infittiscono le notizie relative alla banda che dall’ottobre del 1987, vent’anni fa esatti, imperversò tra Bologna e le Marche fino al novembre 1994. Alla fine del marzo 2007, la Procura della Repubblica di Bologna aveva presentato ricorso contro la decisione del tribunale di sorveglianza che aveva concesso cinque giorni di permesso a Pietro Gugliotta, uno dei criminali condannati in questa vicenda, per consentirgli di lavorare presso una comunità religiosa. La motivazione: una relazione della divisione anticrimine della questura di Bologna circa possibili relazioni tra l’ex bandito e la criminalità organizzata.

Se non si erano fatte attendere le ovvie proteste dell’avvocato difensore, la famiglia di Gugliotta – come già in passato – aveva manifestato il proprio dissenso verso una scarcerazione dell’uomo, e il comitato dei parenti delle vittime era insorto. E in proposito ha detto Rosanna Zecchi, presidentessa dell’associazione che riunisce i familiari delle vittime dalla banda, in un’intervista al quotidiano Il Bologna del 23 marzo: «La richiesta di Savi [e si riferisce ad Alberto Savi e all’invocazione di perdono lanciata alla vigilia delle commemorazioni della strage del Pilastro, nel gennaio 2006, N.d.A.] ha generato perplessità nel nostro comitato. Dubbi, per esempio, su aspetti ancora ambigui come il raid nel campo nomadi o il duplice assassinio nell’armeria di via Volturno: eventi non collegati alle finalità della banda, quelle di sparare per profitto, per portare a termine le rapine. Cosa c’è dietro la Uno bianca? chiesero a Fabio Savi. Rispose: la targa. Una targa, evidentemente, di cui ancora oggi le vittime non leggono bene i numeri».

Benvenuti nei misteri della vicenda passata agli annali della cronaca e della storia più recente come “la banda della Uno bianca”. Una storia che di qui ai prossimi anni continuerà a far parlare di sé perché, tralasciando al momento gli interrogativi a tutt’oggi irrisolti e sui quali ci sarà modo di soffermarsi nelle pagine che seguono, c’è una realtà la cui presa di coscienza potrà essere rimandata ancora per poco. La introduce Walter Giovannini, il pubblico ministero che rappresentò l’accusa contro i Savi e i loro complici nel procedimento bolognese: «Forse un po’ di pudore e il rispetto per le vittime dovevano impedire di fare una domanda di permesso a poco più di un anno dalla scarcerazione. Gugliotta porta il peso morale dei fatti di sangue accaduti dopo che lui ha abbandonato la banda».

L’uomo, infatti, era un agente di polizia e non fece nulla perché si fermassero i fratelli Savi: rimase zitto, al suo posto, in questura. Quando alla fine del 1994 finì anche lui nella rete degli investigatori, scampò la condanna all’ergastolo perché non venne riconosciuto colpevole di nessuno dei delitti che la banda commise e finì per essere condannato a una pena di ventotto anni di reclusione, sommando le sentenze di Bologna e di Rimini. Poi gli venne riconosciuta la continuazione e gli anni scesero a venti. Altri tre anni gli furono stralciati dall’indulto approvato dal Senato il 29 luglio 2006, la buona condotta e perizie psicologiche favorevoli: morale della sottrazione, Gugliotta tornerà libero tra poco, nell’estate 2008.

Ed è proprio questo il punto: a meno di nuove notizie di reato e di nuove indagini, occorre iniziare a fare realmente i conti con il fatto che prima o poi lui e i suoi complici potranno uscire. Certo, in modi differenti. Se infatti Gugliotta avrà chiuso i suoi conti con la giustizia, gli altri cinque componenti della banda – i fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli –, se anche fossero loro estesi in qualche forma i benefici di legge, non lo potranno fare probabilmente mai del tutto e saranno comunque sottoposti a misure restrittive della libertà personale.

Ma è possibile ipotizzare un loro ritorno in circolazione senza che sia mai stata fatta totale chiarezza sui crimini di cui si macchiarono? Per la giustizia sono rapinatori, non terroristi, eppure agirono come tali. La loro storia qua e là tocca tangenzialmente l’eversione dell’estrema destra nazionale e straniera, ma non si sa a tutt’oggi se per via di fortuite quanto incredibili coincidenze o di un disegno prestabilito (o meglio: la giustizia sostiene la prima versione, ma le ricostruzioni sono in più punti incoerenti e non fanno scartare la seconda). Ci sono poi i rapporti con trafficanti d’armi dell’Europa orientale finiti in manette – uno nello specifico, Tamas Somogyi, condannato a otto anni e poi rimesso in libertà per vizi procedurali –, forse non sufficientemente sondati e che con difficoltà si possono ridurre alla vendita di un singolo kalashnikov.

Inoltre, ad arresti effettuati e processi avviati, i familiari delle vittime hanno subito minacce anonime e pressioni: segno che fuori c’è qualche mitomane che si diverte sulla pelle altrui senza subire alcuna conseguenza (è possibile), oppure che una rete di complici mai individuati ha continuato a funzionare anche dopo la neutralizzazione dei criminali (è altrettanto possibile). E poi c’è la questione di alcuni depistaggi sulle cui responsabilità e motivazioni ci ha pensato, nel marzo 2007, la prescrizione a tirare un colpo di spugna.

Soffermiamoci un attimo su questo punto. La ricostruzione dei singoli fatti troverà maggiore spazio più avanti. Tuttavia qui si vuole sottolineare una specifica circostanza: se esisteva ancora una possibilità di svelare in sede giudiziaria qualche elemento in più sulla sanguinosa vicenda, di capire perché ci fu chi testimoniò il falso indirizzando le indagini verso piste sbagliate, quella possibilità è stata cancellata da una legge del dicembre 2005 che andava a ritoccare i tempi entro i quali i reati non erano più penalmente perseguibili. Più nota come «legge ex Cirielli», è la versione emendata di una proposta che porta il cognome di un deputato di Alleanza Nazionale il quale, durante il governo Berlusconi, se ne venne fuori con un testo di riforma giudiziaria ribattezzato dalla stampa come «legge salva Previti». Fatto sta che questo provvedimento, se ha evitato condanne a politici con una condotta tutt’altro che cristallina, ha avuto effetto anche sulla vicenda della Uno bianca e nello specifico si è riverberato in particolare su due testimoni che, ai tempi, confermarono l’orientamento di quei magistrati e di quegli investigatori che credevano nell’erronea pista della criminalità organizzata.

La prima di queste false deposizioni riguarda un fatto che accadde il 26 giugno 1989: una rapina alla Coop di via Gorki, a Bologna, durante la quale morì Adolfino Alessandri, 53 anni, freddato dai banditi in fuga perché gridava al ladro. La seconda invece è relativa a quello che è forse uno dei più celebri dei delitti dei Savi e complici: l’eccidio dei carabinieri consumatosi nel quartiere del Pilastro e durante il quale morirono, il 4 gennaio 1991, tre militari poco più che ventenni, Otello Stefanini, Mauro Mitilini e Andrea Moneta. Per ognuno di questi fatti saltò fuori chi «aveva visto tutto» e poteva incontrovertibilmente inchiodare gli assassini alle loro responsabilità. Per la Coop di via Gorki una donna, Anna Maria Fontana, si autoaccusò di complicità e puntò il dito verso il clan dei catanesi. Per il Pilastro, quella che allora era una minorenne, Simonetta Bersani, finì per inchiodare i fratelli William e Peter Santagata facendoli così finire in galera e sotto processo insieme a Massimiliano Motta e a Marco Medda. Tutti insieme sarebbero stati elementi della mai esistita “quinta mafia” bolognese e per loro si sarebbe profilata una condanna all’ergastolo, se la cattura dei veri componenti della banda non avesse mandato a carte quarantotto il castello accusatorio del pubblico ministero, Giovanni Spinosa.

Le ragioni delle calunnie avrebbero potuto – e dovuto – essere chiarite. Anche perché, se coloro che finirono alla sbarra per l’omicidio dei carabinieri al Pilastro scontarono “solo” un periodo di carcere preventivo, ci fu invece chi, negli anni precedenti, la galera se la fece da colpevole al posto dei Savi. E invece no, c’è la prescrizione dei reati e così le due donne non devono più fornire a chicchessia alcuna spiegazione sulle versioni che sostennero in passato. Tutto finito. O almeno così si vorrebbe nel quasi totale silenzio degli organi di informazione.

Tornando al discorso di poco fa, i familiari delle vittime – ma anche quelli di alcuni dei banditi, a leggere le dichiarazioni dei congiunti di Gugliotta – temono il rilascio di «quelli della Uno bianca». Ed evitare l’invocazione dei benefici di legge non è solo una questione di rispetto e pudore, come pur giustamente dice Giovannini; è anche una questione di sicurezza per i parenti e più in generale per i cittadini. Perché, se dietro la Uno bianca ci fosse stata solo una targa, oggi non ci sarebbero ancora tante domande senza risposta.

Eppure nell’agosto 2006, quando si aprivano le porte per i detenuti indultati, Roberto Savi, rinchiuso nel carcere di Opera, faceva sapere di aver fatto richiesta di grazia dovendola ritirare una ventina di giorni più tardi, dopo il vespaio sollevato e il no della Procura generale di Bologna. Chissà quale motivo ha portato la mente della banda a osare tanto, senza nemmeno passare attraverso il vaglio del proprio avvocato difensore, quando era chiaro che le famiglie non avevano dimenticato? Anna Stefanini, la madre di uno di carabinieri uccisi al Pilastro, era stata esplicita nella sua richiesta: «Io non sono per la condanna a morte, ma sono per la pena certa e allora se uno è stato condannato all’ergastolo trent’anni almeno deve scontarli». Lo aveva detto nel gennaio 2006 quando, alla vigilia delle celebrazioni in memoria dei militari caduti del 1991, le era giunta una lettera di Alberto Savi in cui l’ex poliziotto chiedeva perdono per quel triplice omicidio.

In ultimo, c’è un ulteriore discorso. Il periodo che andò dal 1987 al 1994 non fu caratterizzato solo dal terrore provocato con le incursioni di una banda di assassini, i cui componenti erano quasi tutti agenti di polizia. Altri episodi neri si intrecciano, almeno dal punto di vista cronologico, con la storia della Uno bianca. E ne viene fuori una trama oscura, minacciosa, a cavallo di un’epoca in cui, sotto lo sfavillìo tramontante degli anni ottanta e del loro ipocrita ottimismo, cadono muri e saltano organizzazioni militari clandestine, apogei politici inattaccabili si disintegrano e lo sdoganamento a destra e a sinistra rimescola le carte di mazzieri disorientati alla ricerca di nuovi padroni.

Aumentando lo zoom e andando a inquadrare situazioni più circostanziate, si vede come in quegli anni anche l’Arma dei carabinieri era tutt’altro che estranea a crimini tali da far andare i giornali dell’epoca alla ricerca dei suoi “infedeli”. C’è poi la morte di un educatore professionale, assassinato davanti al carcere di Opera con una pistola «balisticamente compatibile» con una di quelle utilizzate dai Savi; e mai più è arrivata una verità sul particolare di quella morte (anche se le indagini hanno inforcato la strada della criminalità organizzata) che – si dice – determinerà molti anni più tardi il suicidio della compagna della vittima ai tempi in cui dirigeva un supercarcere da 41bis. C’è poi la banda dell’ex militare Damiano Bechis, a cui si aggiungono gli estorsori dell’entroterra romagnolo e i taglieggiatori degli hotel di Bologna, il cui destino finisce per incrociarsi a uno di quelli che nel capoluogo emiliano sono ricordati come i delitti del dams. Gente che alla luce del sole porta una divisa e, fuori servizio, arrotonda minacciando, sparando e, in qualche caso, uccidendo.

C’è anche la vicenda della strage di Bagnara di Romagna, cinque carabinieri assassinati ufficialmente per un raptus di follia che ha portato a un omicidio-suicidio, ma sulle cui ragioni c’è ancora chi si pone domande. C’è la Fiat Uno bianca che viene rubata dal blindatissimo Forte Braschi, sede del sismi, e ritrovata a poca distanza dopo aver percorso – dice il tachimetro – cinquecento chilometri, proprio mentre la direzione del servizio militare è vacante a causa del possibile impiego di Gladio nella lotta alla mafia e al narcotraffico. E ci sono i venti che soffiano dal Belgio, dove una vicenda molto simile a quella della banda dei poliziotti emiliano-romagnoli è già accaduta e puzza di Patto Atlantico fin dall’inizio.

È una stagione, questa, che si conclude con le indagini dei magistrati di Milano su un’intera classe politica, con le autobombe disseminate dalla mafia al di fuori della Sicilia e che, per una casualità probabilmente dettata da un mercato automobilistico che vedeva l’utilitaria della Fiat il modello più venduto, sono delle Uno, le più invisibili e apparentemente più innocue. Va detto che non tutti gli episodi citati nelle ultime righe e successivamente sono legati ai fatti della Uno bianca, ma ognuno di questi contribuisce a costruire un quadro di terrore che, anche laddove non merita la specificazione di «terrorismo» in senso stretto, contribuisce a tratteggiare l’incompiutezza di un paese che risente di due gravi carenze nella sua storia più recente. Da un lato, la ancora attuale incapacità nell’individuare, in molti fatti più o meno nevralgici, tutti e tre i livelli di responsabilità che compongono determinati eventi delittuosi: il livello di responsabilità materiale, quello della committenza e quello di «coloro che hanno concretamente operato per ostacolare un accertamento di verità», per usare le parole del senatore Giovanni Pellegrino ai tempi in cui presiedeva la commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo. Dall’altro, la fragilità di una democrazia in cui l’impossibilità di un’alternanza ha determinato un indebolimento dei controlli sull’operato della criminalità, la quale ha potuto beneficiare anche di condizionamenti imposti, per dirla ancora con un’espressione di Pellegrino, da «un corso occulto che ha costantemente lambito, o direttamente riguardato, anche apparati istituzionali dello Stato».