Crackdown 2005

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Sembra di essere a undici anni fa, ai tempi dell’Italian Crackdown, quando il giro di vite contro gli hacker non è stato un pezzo di letteratura cyberpunk né un massiccio raid di polizia d’oltreoceano al grido di Law and Disorder on the Electronic Frontier. Qui è più grave perché di procedimenti in corso si viene a sapere un anno dopo, analoga situazione in Gran Bretagna per Indymedia e, nello spostare un server (quello del Firenze Linux User Group), si trovano case, cd-rom e viti un po’ come viene senza che «nessuno di questi fatti [sia] riconducibile ad attività note degli amministratori del sistema» (dal comunicato del FLUG).
Per stare solamente ai fatti, ci sono migliaia di utenti che hanno usato servizi compromessi senza che gli amministratori di sistema ne fossero informati e si vorrebbe sovrapporre un’intercettazione elettronica a quelle telefoniche o ambientali. La ripresa di un discorso già affrontato trova ragione nella gravità della situazione. Una situazione che è disciplinata diversamente rispetto a quella degli Stati Uniti dove il Digital Millennium Copyright Act del 1998 permette comportamenti molto disinvolti negli inquirenti a stelle e strisce.
Almeno fino a quando in Europa non sarà approvata Intellectual Property Enforcement Directive (di cui misteriosamente non si sa più nulla e i cui pericoli sono concreti per tutti i cittadini, non solo per tecnocrati e tecnofili), fatti come questi non dovrebbero accadere. Eppure il vessillo dell’anti-terrorismo, che sia la più esotica minaccia internazionale o la più datata miccia made in Italy, colpisce e colpisce su grandi numeri, fossero solo messaggi di posta elettronica sniffati. Se ve li sniffano, però, perdonate, ma nessuno verrà a divervelo perché, si sa, la sicurezza nazionale è ben più grande di voi. Roba da Monty Python.

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