Una delle chiavi basilari per fare ricerca – indipendente o accademica che sia – è quella di difendersi dai falsi. Per ogni disciplina esistono sistemi di contraffazione che possono – o vogliono – indurre in errore il ricercatore e altrettanti che possono tutelare dall’inganno. Brittany Jackson, studentessa di antropologia all’università di Chicagno, e Mark Rose, dell’Arizona Interschool Association, hanno di recente scritto per la rivista Archaeology Online un articolo in tema intitolato Bogus! An Introduction to Dubious Discoveries partendo con un’avvertenza a premessa: non esiste museo che non contenga al suo interno qualche oggetto o elemento ingannevole. Parola di Jane Walsh dello Smithsonian’s National Museum of Natural History.
E si fa qualche esempio, privilegiando il settore dell’archeologia. Dai teschi di cristallo, sbugiardati già a partire dal diciannovesimo secolo, all’uomo di Piltdown, una presunta specie di ominidi i cui scarni resti ossei vennero scoperti nel 1912 nell’East Sussex, in Gran Bretagna. Ma perché dedicarsi a un progetto che abbia come scopo il trarre in inganno la comunità scientifica? I due autori del saggio parlano in prima istanza di pubblicità e autopromozione. Dopodiché vengono motivi pecuniari, scherzi non meglio motivati o vendetta.
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