La fiction è arte, il suo contrario è costruzione. Interessante articolo sul NYT del giornalista e scrittore Bryan Burrough a proposito di due approcci alla scrittura. Il pezzo si intitola Death in Wyoming, parte come una specie di recensione al libro The Legend of Colton H. Bryant di Alexandra Fuller e ne approfitta per fare il punto sulle modalità da adottare quando si racconta una storia di fantasia e quando invece se ne racconta un’altra realmente accaduta. Come nel caso del libro che Burrough recensisce: storia di un nativo americano che fa l’operaio nel settore petrolifero e che muore poco più che ventenne a causa della negligenza dell’azienda per cui lavora, la Patterson–UTI Energy. E a proposito della nonfiction, il giornalista scrive:
The nonfiction author, however, must build his house by tramping into the woods of society day after day, rooting through the underbrush for just the right wood; then he must fell the trees, haul them back to his site and assemble his dwelling log by log, nail by nail, all the while keeping in mind that if one plank is out of place, someone will howl.
“Call me a strict constructionist, but I wanted to yell, No, no, no, you can’t do that! Not if you want to call a book nonfiction.”
Non capisco. Nella dicotomia fiction-nonfiction che questo signore pone come si cataloga un libro di critica letteraria o di filosofia?
Magari un libro immaginifico come “Così parlò Zarathustra”?
No, no, no, you can’t do that!
Stiamo parlando di categorie letterartie reali o del modo come autori e editor statunitensi sentono il bisogno di suddividere il loro mercato del libro per non confondere troppo le idee ai lettori?