Nel 1973, Claudio aveva nove anni. Era sul bus che lo portava a scuola, una mattina come tante. I disordini, in Cile, erano già iniziati. Non erano i disordini di Santiago, ma anche a Vigna de Mar, cittadina a sud della capitale, gli studenti erano scesi in piazza e gli scontri con la polizia erano nel pieno. Un ragazzino non ne ha piena coscienza, li ascolta al telegiornale e sente un padre fascista parlarne senza cogliere il significato di quello che sta accadendo. Il significato, invece, inizia a coglierlo quando quel pulmino, invece di portarlo a scuola, fa scendere lui e gli altri bambini a metà strada. Di lì non si passa più. La polizia ha allestito posti di blocco in tutta la città e ai mezzi, anche a quelli pubblici, non è più consentito circolare. Per il gruppo di scolaretti che riprende a piedi la strada di casa è solo un giorno di vacanza inaspettato.
Calci ai sassi, passo rilassato. Nessuno comprende che si tratta della dittatura che si sta radicando, della guerra civile tra un governo dispotico e militare e gruppi di resistenti che si stanno organizzando contro un manipolo di militari che sta facendo assassinare un presidente socialista appena eletto. E appare strano a quei bambini quando, in una piazzetta che stanno attraversando, irrompongo mezzi blindati, ne scendono agenti in assetto antisommossa e trascinano fuori casa alcuni ragazzi, poco più che ventenni, fucilandoli sul posti. Claudio racconta che li hanno uccisi di fronte ai rarissimi passanti, davanti alla gente che osserva dalle finestre, davanti ad alcuni bambini in un giorno di vacanza inaspettato.
Nel 1982, Claudio è iscritto alla facoltà di ingegneria mineraria. Si è trasferito a Santiago per studiare e fa parte del partito comunista clandestino pur non essendo un comunista. È un democratico, ma la dittatura non dà scelta: da una parte o dall’altra. Si occupa degli approvvigionamenti alimentari per i compagni che combattono, ogni tanto ne sostituisce altri prendendosi carico dell’inventario dell’arsenale dei guerriglieri senza mai avere parte in operazioni militari vere e proprie. Fa quello che, grosso modo, facevano le staffette partigiane in Italia tra il 1943 e il 1945.
Lui e i suoi compagni aspettano tutti i giorni la polizia segreta di Pinochet. Ma non è preparato quando, una mattina di nove dopo l’assassinio dei ragazzi per strada, la polizia segreta aspetta lui davanti all’università. Lo prendono, lo bendano, lo picchiano e lui pensa che sia la fine, che verrà inghiottito dal nulla come altri compagni scomparsi senza che di loro si sapesse più niente. Qualcuno ha parlato, ha fatto anche il suo nome. E per otto giorni resta in una prigione dove non lo interrogano mai ma dove le prende sempre. Al buio, all’umidità, alla fame. Non può chiamare i suoi genitori, che non sanno dove si trova. L’ottavo giorno, sempre con una benda sugli occhi, lo prelevano e lo fanno salire su una camionetta. Lui crede che sia arrivata la resa dei conti con la dittatura, che lo uccideranno e faranno in modo che il suo corpo non sia mai trovato.
Non parla di quello che sente durante il viaggio. Il veicolo militare si ferma, lo fanno scendere e gli tolgono la benda. In quel momento si accorge che non lo fucileranno. Lo hanno portato al confine con l’Argentina, all’imbocco di un tunnel che divide i due paesi. Un soldato gli dice di attraversarlo e di non farsi più vedere in Cile, altrimenti gli accadrà quello che gli hanno risparmiato. Diventa un esule. Un esule che non ha il passaporto, a cui non è stato consegnato un foglio di via come ai personaggi non desiderati dei primi anni della dittatura. Sono troppi gli ostracizzati sbattuti fuori dal Cile, le brutture del regime di Pinochet hanno ormai fatto il giro del mondo e le Nazioni Unite iniziano a prestare troppa attenzione all’esodo dalla nazione sudamericana.
Claudio attraversa il tunnel, in Argentina trova il modo di chiamare sua madre per dirle che è vivo ma che non può rientrare nel paese. E inizia a camminare o a spostarsi con mezzi di fortuna verso nord. Senza il foglio di via non può dimostrare di essere un esule, non può chiedere lo status di rifugiato politico, è solo un clandestino a spasso per un continente. È questa la ragione per cui trascorre due mesi in un carcere di Panama che descrive come una delle esperienze più terribili che gli siano capitate, dopo il rapimento. È sempre per questo motivo che Cuba gli rifiuta l’ingresso sull’isola. Allora decide di imbarcarsi alla volta dell’Europa. I suoi nonni sono genovesi, verrà in Italia. E per pagarsi il viaggio fa il mozzo su una petroliera che, nei fatti, equivale a calarsi nelle cisterne vuote per pulirle mentre fa tappa sulle coste dell’Africa atlatica e Mediterranea.
Nel 1998, Claudio ritorna per la prima volta in Cile. La dittatura non c’è più. Si parla di processare l’ex dittatore. Si raccolgono le testimonianze delle violenze. Lui trascorre i primi trenta giorni tra Santiago e Vigna de Mar, tra la casa del fratello (i genitori lo hanno raggiunto in Italia alla fine degli anni Ottanta), un’amica dei tempi dell’università che sposa l’anno successivo e la ricerca dei compagni di clandestinità. Alcuni li ritrova, in molti hanno subito la stessa “condanna” all’esilio, qualcuno ora vive all’estero, per lo più negli Stati Uniti, e non ha nessuna intenzione di tornare nel paese. Di altri, invece non si sa più nulla. Si sono semplicemente volatilizzati.
Quando torna in Italia, Claudio è amareggiato. «Là ora si respira l’atmosfera che si doveva respirare qui con la Democrazia Cristiana degli anni Cinquanta. Non si parla più di noi che abbiamo combattuto, sui compagni morti o scomparsi non c’è una verità ufficiale. Per quale motivo ci siamo fatti perseguitare e massacrare a vent’anni? E’ servito a qualcosa quel sacrificio?»
Noi, che durante i suoi racconti avevamo appena qualche anno più di quando lui è stato catturato dalla polizia, pieni delle nostre idee di sinistra, delle nostre battaglie studentesche contro baronati e tasse all’improvviso schizzate verso l’alto, del nostro pacifismo, non accettiamo le sue parole. Cerchiamo di spiegargli che le ragioni si trovano nelle pagine di un libro che mi è stato regalato da un amico, un ex settantasettino che lo teneva nascosto durante gli anni di piombo, «Lettere dalla clandestinità del partito comunista cileno». Claudio risponde che non capiamo, che non abbiamo mai rischiato la vita per poter dire «non sono d’accordo». Ha ragione.
Lui ha deciso, nel 1999, che la sua esperienza italiana era finita. Nemmeno qui c’è stata quella rivoluzione, stavolta giudiziaria, che sette anni prima un gruppo di magistrati aveva iniziato contro la corruzione di stato. La destra, quella che trent’anni fa sprangava per strada ed era connivente con i servizi italiani, è stata “sdoganata” dopo essere stata relegata ai margini del parlamento all’inizio degli anni Sessanta durante il famigerato governo Tambroni. Al governo, anche se solo per sei mesi, c’è stato il più potente imprenditore italiano, un popolista che ora siede di nuovo a Palazzo Chigi e che ha usato il suo strapotere economico, mediatico, clientelare per convincere quasi due elettori su tre a votare per lui.
È lo stesso populista che durante i fatti di Genova stava dentro la zona rossa. Lo stesso che ora decanta le doti di chiarezza e determinazione del capo di stato americano malgrado la morte di un uomo dell’intelligence italiana non sia ancora proprio limpida. Lo stesso che ha sostenuto di non essere stato informato dell’irruzione in una scuola dove un mandato di perquisizione è stato la scusa per una ritorsione cieca ed efferata contro altri ragazzi poco più che ventenni. Lo stesso che comunque è così certo che in mezzo a quelle persone si nascondessero armi, teppisti, terroristi, eversori.
Claudio ora vive in Cile con sua moglie e una bambina. Non ho sue notizie da sei anni, da quando è partito tornando dove tutto è iniziato.
Comments are closed.