L’avevano tanto amata

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Il signor Pandolfi lo vedevi subito che aveva un peso sul cuore. Non tanto per il suo abbigliamento, tipico di chi sta subendo una grave perdita, nero di fuori a indicare il plumbeo che ha di dentro. Quanto, piuttosto, per le occhiaie, l’espressione smarrita, le palpebre arrossate non celabili dalle lenti scure sfoderate in una giornata grigia.
Rossani l’aveva visto avvicinarsi. Le vetrine sulla sua agenzia di pompe funebri erano fumé fuori, ma chi stava dentro poteva controllare chi passava lungo la strada. Così non aveva avuto problemi nello squadrare l’ometto esile e incerto che stava suonando al campanello. «Un novello vedovo, mi ci gioco il cofano,» si sfidò il becchino. E vinse, come sempre.
La serratura scattò per cedere il passo a Pandolfi il quale, senza scandire una parola né seguire un’indicazione, raggiunse l’ufficio di Rossani nel soffuso friscio delle scarpe strascicate sulla moquette tendente al bruciato.
«Dunque…» esordì lo smilzo.
«Dunque…» gli fece eco Rossani.
«Mia moglie…»
«Condoglianze.»
«Grazie.»
«Mi dica come posso aiutarla…»
Pandolfi, che si era piazzato davanti alla scrivania del suo interlocutore, torse il collo abbastanza per valutare la distanza della poltroncina riservata ai dolenti clienti. E facendo un passo indietro, riportata la testa in posizione naturale, vi si sedette mentre Rossani recuperava il modulo d’ordine e, con espressione di rassegnata serenità, afferrava una stilografica.
«La signora, qual è il suo nome?»
«Anna. Anna Ricotti in Pandolfi.»
«L’evento è accaduto in ospedale o a casa?»
«A casa,» rispose Pandolfi soffiando fuori la risposta come se fosse il bronco di un tisico.
«Dunque è là che dobbiamo… intervenire?»
«Sì, là.»
«E…»
«Scusi se la interrompo,» irruppe l’ometto con sorprendente vigore, «mi prometta, ma me lo prometta davvero, che farete un lavoro con tutta la cura dovuta. Il suo saluto deve essere indimenticabile. Indimenticabile per me, si intende.»
«Certo, si intende.»
«Da me voleva sempre quanto di meglio il mondo potesse offrirle. Non posso tirarmi indietro ora.»
«Comprendo.»
Pandolfi vide il funesto professionista iniziare a prendere appunti, afferrare un catalogo e invitarlo a scegliere legno, fregi, raso per il rivestimento interno, materiale per l’imbottitura. E ancora fiori, tipologia delle corone, testo del necrologio, giorno e orario per la funzione religiosa. Eseguì, fu diligente come uno scolaretto che voglia farsi bello con la supplente, accostò squisitamente i colori e non si fece pregare quando si trattò di afferrare il libretto degli assegni per una dovuta caparra.
«Vediamo. Ora sono le 11.35. Saremo da lei entro l’una. D’accordo?»
«Benone.»
Allora i due si alzarono e Rossati seguì Pandolfi lungo il corridoio che conduceva all’uscita.
«Prometta ancora. Indimenticabile,» chiese di nuovo l’ometto girandosi prima di inforcare la porta.
«Indimenticabile.»
«Ha sempre voluto il meglio. Da me e da tutti coloro che l’hanno amata negli anni del nostro matrimonio.»
«Si intende.»
«Grazie.»
«Signor Pandolfi, non mi ha ancora detto quando è morta la signora.»
L’ometto, che era già sul gradino esterno, tornò a voltarsi e rispose come se fosse la domanda più idiota che gli fosse mai capitato di udire.
«Entro l’una, in tempo perché possiate preparare tutto.»

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