Una, cento, mille Ustica

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Quando uccisero Ilaria Alpi insieme al suo operatore, Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994, nella concitazione del momento e dei giorni successivi non fu subito chiaro quanto fosse successo. Era (e lo è ancora troppo) la Somalia dei signori della guerra, dei Caschi Blu dell’Onu, del mercato nero e dei traffici più neri che si possano immaginare. Tra le cause a lungo si parlò di una rapina ai danni di europei, una vendetta ai danni degli italiani per le sevizie sulla popolazione locale, un mercanteggio tra cosche locali. Solo che gli orologi non erano scomparsi dai polsi delle vittime. A far fuoco non erano stati AK47, almeno non addosso ai giornalisti occidentali. Colpi ravvicinati, esplosi a bruciapelo, piccolo calibro. A testimoniare lo stile non di un commando che spara a mucchio su un fuoristrada, ma di sicari con obiettivi definiti.
Tanto che il proiettile penetrato nel cranio di Ilaria Alpi non era fuoriuscito (a lungo si disse che il frammento metallico trovato nel suo collo era una scheggia della carrozzeria), tanto che la polvere da sparo attorno al foro di entrata e la tipologia delle bruciature a corollario della ferita permisero di accertare che la canna della pistola non poteva essere a più di una trentina di centimetri. Ci si mettano ancora i block notes scomparsi, l’ultimo viaggio da Mogadiscio a Bosaso sulle tracce di una nave la cui flotta fu donata dal governo italiano all’ex dittatore somalo e requisita da privati successivamente per farla approdare sulle coste di Libia, Paesi Baschi o Irlanda del Nord. Be’, già questi elementi sono più che sufficienti per far capire che la giornalista del TG3 e il suo operatore di ripresa non sono stati assaliti da qualche predone, non sono caduti in un’imboscata di generica matrice criminale. Eppure ci sono ancora così tanti misteri su questa vicenda, mancano ancora tante di quelle risposte chiare, suffragate da fatti e documenti, che ha ragione Italo Moretti, ex direttore della testata giornalistica Rai, quando definì quel duplice delitto «una piccola Ustica».
A pochissima distanza da un evento, il cronista deve informare. Lo fa con ciò che ha: notizie frammentarie, indiscrezioni, testimonianze e fonti interpellate a caldo e dunque parziali e inquinate dall’emotività del momento. Cosa sia veramente accaduto in Iraq appena dopo la liberazione di Giuliana Sgrena, dunque, non è ancora dato saperlo. Almeno non nel dettaglio. Certo è che le dichiarazioni ufficiali e ufficiose si discostano le une dalle altre. Il valzer delle smentite e delle puntualizzazioni è già partito. Il copione del lutto sta andando in scena senza che si possa, come è ovvio che sia, discettare sulla morte di un funzionario nel pieno della sua attività mentre portava in salvo una giornalista, rapita anche lei mentre svolgeva il suo compito. Ma anche stavolta, come undici anni fa, si intuisce che i calcoli non torneranno e che eroismo e senso della patria – vero o presunto che sia quest’ultimo – serviranno da drappo funebre per un uomo e la sua verità. Per una volta, però, che gli affari di stato non abbiano la meglio su una vicenda torbida e che puzza ancora di polvere da sparo. Non un’altra Ustica.

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