La partenza di Carlotta
La Minguzzi era stranita dagli accadimenti di quel periodo. Il paese era sempre stato il paese e nessuno dei suoi abitanti, almeno quelli che rientrano nella categoria dei meno facoltosi, lo aveva mai lasciato. Sì, certo, qualche ragazza di buona famiglia se n’era andata per maritarsi bene lontano dalla casa paterna e l’imminente scoppio della guerra, a sentire il podestà, iniziava a prendersi gli uomini in forze per mandarli forse in Francia ad aiutare i tedeschi. Ma per il resto la loro vita si svolgeva lì, tra la piazza, la chiesa, l’edicola, le corti d’estate e le stalle d’inverno. Ci si conosceva tutti, per un incrocio familiare o per l’altro si finiva per essere cugini alla lontana e, se le partenze erano un evento, altrettanto lo erano gli arrivi, fatta eccezione per Lola e Ferruccio.
Curiosa com’era, la lavandaia aveva aspettato per diversi giorni di seguito la corriera del mattino che conduceva alla città dove fermava il treno. E si era stupita di non imbattersi mai nella signorina Antonietta. Eppure l’ultima volta che l’aveva incontrata diceva che se ne sarebbe andata il giorno successivo. Tant’è vero che da lì in avanti nessuno l’aveva più vista. Era pur sempre vero che avrebbe potuto prendere la corriera della sera e che la Minguzzi non era andata due volte al giorno alla fermata. Oppure poteva aver accettato un passaggio da qualcuno che passava dalle parti della stazione. Ma le sembrava improbabile. Antonietta difficilmente usciva di casa dopo una certa ora del pomeriggio, non era dunque possibile che si accingesse a un lungo viaggio in prossimità della notte. Inoltre, aveva sempre manifestato una certa diffidenza verso le automobili, con quei loro fanali che ricordavano tanto uno spettro dagli occhi illuminati, e verso chi le conduceva, nutrendo scarsa fiducia nelle leve da muovere per far partire e avanzare quei marchingegni.
Insomma, Irene doveva tenersela la sua bramosia di dettagli sulla nuova vita di Antonietta e attenderla senza mai incontrarla l’aveva lasciata con le sue domande senza risposta.
Ma un caso passi. Quando le sparizioni erano diventate due, allora una semplice curiosità dettata dalla sua indole da comare aveva lasciato il posto a qualcos’altro. Erano infatti giorni che bussava all’uscio di Carlotta senza ottenere risposta. Ormai s’era fatto venerdì e l’ultima volta che l’aveva incontrata era stato all’uscita della messa delle otto, la domenica precedente. Quando don Franco aveva permesso ai fedeli di andarsene in pace, le due donne si erano fermate per qualche minuto sul sagrato scambiandosi poche parole, come era loro uso.
«Signora Minguzzi,» l’aveva salutata con giovialità la maestra una volta all’aperto.
Irene, quella mattina, aveva fretta di rientrare a casa. Il cielo minacciava un bel temporale e la donna non aveva la minima intenzione di prendersi una lavata sulla strada del ritorno. Ma si era rassegnata di buon cuore a quelle quattro chiacchiere.
«Si direbbe che Nostro Signore sorrida agli abitanti del paese,» aveva proseguito Carlotta senza attendere che Irene ricambiasse il saluto.
«E perché mai?» aveva chiesto la Minguzzi. «C’è aria di guerra anche per l’Italia e comunque sta per venire a piovere».
«Oh, sciocchezze. Dalla guerra c’è chi ci protegge e un po’ d’acqua non può certo rovinare una così bella stagione.»
Irene era perplessa. Carlotta non era certo una donna che potreste definire una compagnona, semmai era di una cortesia allegra ogni volta che ci si imbatteva in lei. Tuttavia quella mattina c’era dell’altro: era eccitata come se le fosse stato promesso in regalo qualcosa così a lungo inseguito. E quando glielo fece notare, la risposta non fu quella che si sarebbe aspettata.
«Di meglio, signora Minguzzi, di meglio».
«Accidenti. E che ci può essere di meglio?»
«Ci può essere che lascio il paese e l’asilo.»
In quelle parole c’era tutta l’esuberanza di una ragazzina alla vigilia di una vacanza. Irene era sbigottita di fronte all’analogia della scena vissuta poche settimane prima con Antonietta: così simili la repentinità della partenza e il cambiamento anche fisico, oltre che morale, delle due donne.
«E per andare dove?» insistette la lavandaia.
«In Toscana, vicino a Firenze,» si affrettò a rispondere la maestra. «Là c’è una scuola privata, è tenuta da suore ed è venuta a mancare la direttrice. Le religiose ci tengono che a presiedere sia una laica e così vado io.»
Se la ragione era questa, non costituiva comunque una risposta ai tanti interrogativi che la mente di Irene formulava.
«Scusate, signora,» aggiunse infatti in meno di un momento. «A Firenze si libera un posto in un istituto e vengono a chiamare proprio voi? Non sto dicendo che non ne siete all’altezza, me ne guarderei bene, ma solo che mi sembra curiosa la scelta. Siamo talmente lontane da quella città.»
«Oh, avete ragione,» rispose Carlotta, «ma ultimamente avevo manifestato la mia intenzione di trovare qualcosa di più di un asilo tirato su alla bell’e meglio. Così la voce è passata da una bocca all’altra ed ecco che il mio desiderio si è realizzato.»
«E qual è la bocca che va ringraziata per questo?»
«Suvvia,» Carlotta incalzò Irene. «A volte penso che abbia ragione chi dice di voi che siete peggio della gazzetta ambulante.»
Irene non se l’ebbe minimamente a male per il commento così poco rispettoso un po’ perché Carlotta lo aveva detto senza un minimo di cattiveria e un altro po’ perché Irene non ci si raccapezzava in quel mondo che sovvertiva il ritmo di una vita di campagna e il destino a cui tutte loro erano predestinate dalla nascita, intessuto di rassegnazione, ripetitività e nessuna speranza in un futuro migliore.
«Allora, se non volete dirmi chi vi ha fatto da intermediario, almeno mi potreste dire quando contate di lasciare il paese…»
«Presto, davvero presto, prima di quanto io stessa speri.»
Detto questo, Carlotta si era accomiatata sempre tra caldi sorrisi mentre Irene la guardava allontanarsi.
Sarà stato un paio di giorni dopo, non più tardi di martedì, che la donna aveva ricevuto una cartolina da un’anziana parente della defunta madre, ma avendo dimenticato quel poco di alfabeto mandato a memoria decine d’anni prima, aveva pensato di chiedere alla maestra di leggerla per lei. La scusa le appariva buona per presentarsi a casa sua e tornare alla carica con altre domande.
Così, percorse le poche centinaia di metri che sepavano le due abitazioni, Irene si era presentata all’uscio di Carlotta e aveva bussato. Poi aveva bussato ancora, ancora e ancora. Una buona mezz’ora in cui la successione di colpi alla porta era stata intermezzata da sbirciate attraverso le finestre velate dalle tende e da giri intorno all’edificio per tornare all’ingresso e picchiare di nuovo sul legno duro e scheggiato. Ma niente quel giorno. E niente neanche nei successivi. La maestra era proprio andata via: non un saluto, un indirizzo, un’indicazione.
Rassegnandosi, quella sera Irene stava per riprendere la strada di casa quando finì quasi per inciampare nel gatto di Carlotta che, vuoi per la fame o per la scarsa attitudine a trascorrere le sue giornate fuori, aveva attaccato subito a strusciarsi contro le sue gambe.
«Anche tu non ne sai nulla?» aveva domandato alla bestia come se questa potesse rispondere. «Vieni con me. Se sei stato abbandonato, fai conto di aver trovato una nuova padrona.»
Senza aggiungere altro lo prese in spalla e tornò sui suoi passi.
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