Il sapone del diavolo
Lola stava versando in nove pentoloni gli ingredienti che completavano la sua ricetta: acqua a volontà e soda caustica. Per la donna, fare in casa il sapone era un passatempo, senza contare il risparmio di quella scorta domestica, con tutti i panni usati che andavano rimessi a nuovo prima di essere venduti.
Lola era metodica. La riuscita della sua ricetta dipendeva da due fattori: da un lato, la qualità del minestrone saponato che cuoceva e, dall’altro, la quantità degli elementi che mescolava, consapevole che un errore nel bilanciare grassi e soda poteva compromettere tutto il lavoro. La sua metodicità si rivelava anche nella vestizione: i guanti spessi per maneggiare la soda e il sapone appena fatto, una garza davanti agli occhi per evitare che qualche goccia le azzoppasse la vista e una sciarpa di cotone, ripiegata più volte, davanti al naso e alla bocca per schivare i vapori.
Poi non dimenticava mai che doveva essere la soda a essere versata nell’acqua: il contrario avrebbe generato una reazione i cui fumi e schizzi potevano procurare una serie di inconvenienti. Inoltre manipolava lo zuppone solo attraverso una serie di mestoli di legno lunghi e resistenti.
La serva Maria era atterritta ogni volta che la padrona procedeva con il rituale del sapone. L’improvvisa sparizione di Lola, della durata di un paio di giorni, stava a significare che era a caccia degli ingredienti e la domestica non era mai riuscita a sapere con precisione da dove saltassero fuori in dosi così cospicue. Anche la bardatura la intimoriva, rievocando al suo animo superstizioso immaginarie visioni dell’angelo decaduto che prepara demoniache pozioni. Costretta ad aiutarla ogni volta, all’inizio Maria aveva rifiutato qualsiasi bardatura. Ma aveva finito con lo scottarsi il collo senza che nemmeno un’abbondante colata di aceto potesse lenire ustione e spavento. Così si era rassegnata all’abbigliamento protettivo, ma l’implacabile timore andava a nutrire la sua ritrosia, atavica e irrazionale, verso quella casalinga fabbrica del sapone.
Nei giorni precedenti, la serva aveva capito che di lì a poco si sarebbe trovata nuovamente a mescere sapone liquido perché, ancora prima della sparizione, Lola aveva sistemato sotto le grondaie della corte una serie di tinozze per la raccolta dell’acqua piovana. La padrona le aveva spiegato che l’acqua distillata avrebbe reso migliore il risultato. Ma in periodo di guerra la scarsità era la regola e in sua mancanza occorreva ingegnarsi. Guai a rovesciare la pioggia raccolta: le sarebbe costata una battuta con un telo bagnato.
Preparare la saponificazione era un rituale che procedeva in modo sempre identico. Lola riappariva dai due giorni di assenza con diversi tegami che contenevano un grasso simile allo strutto e spiegava alla rozza donna di servizio che a darglielo era Mario, l’allevatore di maiali: a ogni macellazione, lo teneva da parte apposta per lei in cambio di lenzuola, tovaglie o tende da regalare alla moglie.
Il grasso veniva lungamente bollito nei pentoloni con la soda caustica e l’acqua piovana. Quando la saponificazione arrivava a termine, le due donne aggiungevano abbondanti mestolate di sale comune, ingrediente necessario perché si separassero il sapone e la lisciva. Quest’ultima poi subiva un ulteriore processo per essere purificata e successivamente utilizzata come sbiancante per il bucato. Nel frattempo, il composto veniva rovesciato in tegami bucati sul fondo dei quali era stata sistemata la garza per la raccolta del sapone. Dunque, le due donne pressavano la sostanza ancora plasmabile e la riponevano a stagionare per poterla riutilizzare quando la sbobba avesse raggiunto la consistenza necessaria.
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