La Lola della Bassa – 1

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Storie Nere è una categoria nuova categoria che intende riportare a puntate storie reali, di fantasia o verosimili. Quella che segue si intitola “La Lola della Bassa” e si ispira a una vicenda consumatasi tra il 1939 e il 1940, quella della saponificatrice di Correggio. Ma vi si ispira soltanto, però, per sommissimi capi. Dialoghi, personaggi, azioni sono invece frutto di finzione e non sono ricondicibili ad alcunché di reale.

Il retrobottega

Lola aveva il sorriso delle persone fresche d’animo. Guardandola, si sarebbe detto che i lutti e le botte non avessero calato su di lei quella patina grigia di chi ha fatto il suo ingresso nell’età matura, gravato da responsabilità e spogliato di sogni. Il suo spirito, bonario e aperto, aveva fatto la fortuna della bottega e del marito Ferruccio, impiegato all’ufficio del catasto che, per quattro ma sicure lire di stipendio, aveva ritenuto un buon affare vendere giovinezza e giovialità.
Lola invece ci sapeva fare. Quei due, emigrati dal Mezzogiorno dopo la distruzione della Marsica, in dote solo la maledizione della madre di lei, avevano affittato in via Roma un appartamento con negozio annesso grazie ai risarcimenti versati a chi aveva perso casa e beni sotto l’impennata della terra.
«Qualcosa ce ne faremo» aveva detto lei. E qualcosa ci fecero. Da meridionali trattati con diffidenza perché mica se ne vedevano tanti da quelle parti, avevano tirato su una piccola fortuna in un paesotto della bassa Emilia dove d’estate, quando la nebbia è assente, ci pensa l’umidità a intorbidire il paesaggio.
«E non è per merito della questua del comune che siamo quasi signori» ripeteva Lola alle donne che, con la scusa di cercare una camicetta come si usa nella capitale o il cappello che con la moda non ha nulla a che vedere, si davano convivio nel retro.
Ad attirarle non erano però solo gli straccetti che Lola recuperava trasformandoli, dietro diligenti lavaggi e stirature, in capi di sartoria che le assicuravano un discreto introito. No. A far loro gola era il retrobottega, trasformato nella seconda attività – prima in termini di guadagni – della padrona. Qui, con espressione grave e modi da officiante, leggeva carte e fondi del caffè, consultava astri e trapassati e vaticinava un futuro per una serie di zitellotte a cui il futuro glielo leggevi in faccia, senza tirare in ballo i lumi del cielo. Tra le più affezionate, ce n’erano tre che venivano un giorno sì e l’altro anche, se proprio proprio non c’era altro di più urgente.
Antonietta Cocinelli l’avreste detta una massaia che spenna oche pescate dalla corte e inforna arrosti per una mezza dozzina di figli. Di figli, invece, ne aveva, anzi ne aveva avuta da un anno in qua, solo una e di marito mai neanche l’ombra. Diciannove anni prima, quando gli echi degli scontri tra cooperative rosse e i nascituri fasci di combattimento iniziavano a farsi conoscere, lei aveva messo al mondo una creatura, Lietta, al di fuori del sacro vincolo del matrimonio.
Il padre della creatura era un garzone che, dalla sporta da fornaio, era passato al manganello facendo tappa alla marcia su Roma. Famiglia povera ma onorata la sua, aveva pensato bene di spedire il rampollo dai lombi ruspanti in città e di qui era partito più tardi per l’Eritrea dove infausto destino aveva voluto che una portentosa diarrea se lo portasse via.
Così Antonietta, svergognata e ripudiata dai genitori, si era tenuta la sua bambina stirando la biancheria dei signori di campagna. Ragazzetta silenziosa ma amorevole, Lietta era cresciuta con l’aroma dell’amido nelle narici e il timore che Gesù, un giorno, venisse a chiedere il conto per il peccato che l’aveva generata. E così era stato quando, inciampando in un forcone, s’era trafitta il polso e il sangue, infettato dal tetano. Antonietta aveva pianto ai funerali e poi si era rasserenata quando aveva saputo che Lola sapeva parlare con i morti.
La seconda avventrice fissa del retrobottega era Carlotta Galeppi. In età da marito, aveva sacrificato la sua carne sbocciante alla follia della madre: la donna viveva ormai persa in una rievocazione tutta sua della corte del Re Sole di cui aveva letto, giovinetta peccaminosa, in romanzi sporchi che circolavano in collegio nonostante l’onnipresente sguardo inquisitorio delle suore. Man mano che il male inondava la sua testa, la matta si era trasformata nell’immaginaria concubina di sua maestà e destinava le giornate ai preparativi del regale amplesso con il più luminoso dei sovrani.
A Carlotta non era rimasto altro che accudirla, scandire stentati «Mais oui, madamoiselle», «Le roi vous attend» e aspettare che la vecchia esaurisse i suoi ardori per l’assolutismo borbonico nell’abbraccio dell’eterno riposo. Quando avvenne, la fioritura di Carlotta era trascorsa da tempo e, con rammarico, si era rassegnata al fatto che in paese non avrebbe mai trovato un uomo che la impalmasse.
Così, per sopravvivere, aveva venduto i gioielli della madre e, riesumando un diploma magistrale ingiallito nel cassetto del comò, aveva imbastito un asilo privato. Non una scuola ufficiale che l’avrebbe insabbiata nella fiera burocrazia fascista, ma un nido con lettini, giocattoli e seggiole in cui le mamme potevano depositare i loro cuccioli confidando in un pasto caldo e nella merenda dietro il pagamento di una ragionevole retta mensile. Carlotta si era appassionata talmente al suo ruolo di maestra che ora meditava il grande salto: una scuola vera, ma non più da insegnante, voleva essere direttrice.
La terza signora di nome faceva Adelaide Ghislandi. Donna dal petto imperioso, teneva il mento sempre alto, la testa di tre quarti che puntava alla spalla sinistra. Da giovane era stata una cantante lirica, un soprano, che, complice l’unica audizione azzeccata della sua vita artistica – anche per la compiacenza dimostrata verso il direttore della compagnia di canto, malignava la cognata Irene Minguzzi –, aveva preso parte a una tournée che l’aveva portata in Egitto e in Marocco. Qualche giornale locale si era occupato di lei ai tempi dei successi d’oltre Mediterraneo, ma la sua stella aveva iniziato a tramontare nel momento in cui le brame del direttore si erano indirizzate verso un passerotto aspirante tenore che aveva forse superato la pubertà.
La pubertà, il passerotto, l’aveva effettivamente esaurita, ma era ancora lontana dalla maggiore età e non aveva comunicato ai genitori la sua intenzione di raggiungere una compagnia di canto per esibirsi pubblicamente davanti agli arabi. Quindi, quando la patria aveva visto il ritorno gli artisti, ad attenderli non c’erano fama e pubblico, ma i carabinieri aizzati da mamma e papà passerotto. Morale: il direttore in carcere e poi al confino e Adelaide al punto di partenza, nel paese natale, bruciata dallo scandalo. I passati splendori erano l’argomento preferito della cantante, sempre pronta a sfoderare dalla borsetta quegli articoli che parlavano di lei, uno dei quali era corredato addirittura da una fotografia. E ora, alle soglie dell’infertilità, aveva abbandonato velleità canore per attendere un uomo con cui maritarsi e condividere quello che restava.

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