Preferiva che fossero gli altri a vivere. Lui si limitava a descriverla, la vita. Certo, oltre a sbatterla sulla carta, la cercava, ne leggeva avidamente sui giornali che ogni giorno si portava a casa. O la stavana dai libri che divorava con voracità. Oppure ancora la coglieva impudica negli angoli più remoti e ambigui di Internet, raggiungendola attraverso combinazioni di parole chiave che avrebbero potuto tranquillamente far drizzare le orecchie a un qualsiasi Grande Fratello in silente ascolto.
Si rendeva conto di soffrire di un blando eremitismo che sfociava, con ogni probabilità, in toni di sociopatia. Ma a un certo punto aveva realizzato di averne abbastanza. Era iniziata chiedendosi il motivo per cui, ogni inverno, si faceva assalire passivamente dal freddo che gli succhiava il midollo dalle ossa nei rientri notturni. Gettava nel cesso qualche ora bevendo birra in uno squallido pub di periferia e poi, pagato il conto alla cassa, espiava la triste serata facendosi divorare dal gelo. Perché? Quando la domanda gli fu così chiara da non poter essere elusa, seppe anche di non avere una risposta. Ma sapeva pure di poter evitare almeno quel genere di sofferenza. E così fece. Al pub non ci tornò più.
Aveva un concetto tutto suo della vita. La considerava dolce come uno stupro e non aveva alcuna intenzione di permettere altre profanazioni del suo corpo e della sua mente. La seconda decisione che prese, quella di scrivere, era la diretta conseguenza della prima. E non aveva nulla a che fare con una nobile denuncia. Era al contrario più vicina a un avvertimento, alla promessa di una minaccia. Così i suoi libri erano crudi, una rasoiata sulla faccia del lettore perché ferire è più istruttivo che educare. Le ambientazioni che creava – anzi, che riproduceva – erano violenza allo stato puro. Erano aggressioni che serviva senza farciture ai lettori. Era una realtà brutale percepita con gli occhi di un bambino per il quale il buio e l’odio sono assoluti, senza sfumature, senza focali a cambiarne le distanze.
Per anni aveva vissuto con il sapore del risentimento in bocca. Con l’odore lasciato da uno schiaffo in pieno volto. Con la vendetta che sapeva sempre dove stava di casa. Non c’era niente che lo proteggesse dalle ombre che lo volevano. Aveva provato a rendersi impuro, meritevole di quel marciume che pretendeva la sua anima. Aveva dato in pasto la sua carne a nottate di sesso che regalano unicamente lividi. Era ricorso a ogni genere di droga per permettere al suo cervello di fuggire oltre il confine della coscienza e della logica. Come un automa, si era masticato dita e labbra in un improvvisato rito di autocannibalismo. Ma niente.
Seppur non razionalmente, una parte di lui lo intuiva: finché avesse continuato a vivere, il mostro lo avrebbe reclamato. Perché la deformità si annida ovunque e non è possibile scorgerla in anticipo. Chiunque poteva diventare il sadico, l’approfittatore, il traditore, il macellaio di turno. Chiunque poteva nutrirsi di nuovo del suo panico e poi lasciarlo a terra, svuotato, a raschiare ossigeno per tornare a riempirsi i polmoni e ricominciare di nuovo in una giostra delle atrocità senza fine.
Ci erano voluti decenni per portare in superficie tutto ciò. Ma nel momento in cui aveva saputo qual era il suo destino, aveva scelto la vita rinunciando a essa. Si badi bene: non aveva mai cullato l’idea del suicidio perché non la reputava una soluzione. In un certo senso viveva più profondamente degli altri. Amava svegliarsi il mattino, aspirare a fondo la prima sigaretta della giornata, rileggere una pagina appena scritta, godersi una cena ben riuscita davanti a un telefilm. Era affascinato dalla resistenza che aveva dimostrato in quegli anni e ne era giustamente orgoglioso. Era tornato a prendersi cura del suo corpo, ad ascoltarlo, ad accudirlo quando era ferito. Trascorreva ore immerso nell’armonia più perfetta mentre osservava la neve che scendeva, attendeva con eccitazione lo scatenarsi di un temporale asserragliato all’orizzonte e, a volte, sorrideva quando finalmente il sole tornava a irradiare nel cielo.
Fu solo alla fine di quella notte in cui prese la prima decisione che, finalmente, intravide una speranza per sé. Avrebbe rinunciato all’amore di un altro essere umano, al cinema con amici, alle avventure estive in compagnia. Avrebbe evitato ogni volta che gli fosse stato possibile di rispondere al telefono e al citofono. Quando sarebbe uscito, avrebbe sfoderato le chiavi di casa con largo anticipo sul momento del rientro e sarebbe stato disponibile a nuove sofferenze provenienti esclusivamente dal suo passato. Quelle non le poteva evitare, ma dal futuro non voleva niente. Nel bene e nel male. Tutto ciò non era stato motivo di infelicità, nel momento in cui aveva iniziato la sua nuova non-vita. Anzi, più passava il tempo e più ne era soddisfatto. Rispetto agli altri uomini, aveva modificato le sue aspettative. Per lui, la ricerca della felicità si componeva di piccole tappe.