Philip Zimbardo č lo psicologo che nel 1971 a Stanford diede vita a un celebre esperimento (qui ulteriore materiale in proposito): un gruppo di studenti doveva immedesimarsi nel ruolo di detenuto e un altro in quello di carceriere. Lo scopo era quello di studiare gli effetti determinati da stati di prigionia su entrambi, ma venne interrotto per il rapido crescendo emotivo e comportamentale che ha caratterizzato quell’esperienza. Negli anni, comunque, le ricerche in materia non si sono interrotte e il docente californiano ha presentato al Ted 2008 alcune delle conclusioni contenute nel suo ultimo libro, The Lucifer Effect: Understanding How Good People Turn Evil (Random House, 2007).
Se il volume fa il bilancio di trent’anni di ricerca, il suo intervento dei giorni scorsi si č focalizzato principalmente sul trattamento riservato ai prigionieri di Abu Ghraib (partendo dal materiale raccolto nel 2006 da Salon.com) e Wired ha pubblicato uno speciale che contiene il video della conferenza, le slide utilizzate e un’intervista che tocca diverse esperienze di brutalitā e tortura (il nazismo in Europa, i genocidi del Rwanda, i khmer rossi in Cambogia). E a proposito della scelta di chi utilizzare nel famigerato carcere iracheno, si legge:
Wired: Do you think it made any difference that the Abu Ghraib guards were reservists rather than active duty soldiers?
Zimbardo: It made an enormous difference, in two ways. They had no mission-specific training, and they had no training to be in a combat zone. Secondly, the Army reservists in a combat zone are the lowest form of animal life within the military hierarchy. They’re not real soldiers, and they know this. In Abu Ghraib the only thing lower than the army reservist MPs were the prisoners.