Colgo al balzo la palla di alcune concomitante per scrivere qualche parola in merito all’incontro di venerdì scorso al Milano Film Festival su Creative Commons e percorsi culturali. Sala piuttosto piena, fitta così di filmaker talentuosi, molti dei quali senza probabilmente molte possibilità di vivere delle loro produzioni artistiche. E la domanda, sentita da più parti prima dell’inizio del dibattito e poi espressa a voce alta da un regista di film di animazione: «Ma le licenze CC mi permetteranno di sbarcare il lunario? Lo chiedo perché con il sistema attuale non è possibile e perché la gente prende e non restituisce, anzi è abituata a prendere tutto ciò che è gratis e magari è il lavoro di anni e io che faccio?».
Il problema rimane sempre il solito: vivere di ciò che si crea o, quanto meno, beneficiare di una «ridistribuzione del reddito» che viene concentrato dai produttori su roba di qualità discutibile ma di incassi assicurati. Se Lawrence Lessig avesse risolto questo nodo, avrebbe portato a compimento una rivoluzione più grande di quella di marxista tradizione. Di certo, per chi non viene cooptato dai grandi circuiti che – dietro richieste circostanzate – rimbalzano verso meccanismi di marketing che hai voglia arrivare sulla luna, la scavalchi senza problemi, non aiuta tenersi le proprie opere chiuse nel cassetto sperando che un giorno qualcuno se ne accorga e finalmente… Un sistema di copyright più flessibile – e cioè il copyleft – contribuisce invece alla diffusione delle opere garantendo agli autori non entrate economiche, ma la tutela che le attuali leggi sul diritto d’autore conferiscono.
È vero poi che queste stesse leggi sono state formulate per proteggere gli introiti degli editori più che quelli degli autori, ma la flessibilità di Creative Commons e dei sistemi analoghi sta proprio qui: controbilanciare le garanzie dei secondi e – da non dimenticare – degli utenti, che siano spettatori, lettori, fruitori o come si voglia chiamarli. Del resto, sono proprio questi ultimi che decidono di leggere, vedere, ascoltare o eseguire qualcosa in base alle proprie preferenze. E dunque, sono loro che, beneficiando del «diritto di copiare e diffondere», effettuano una selezione delle proposte culturali in cui si imbattono. Forse proprio da questo elemento può partire un discorso che contribuisca alla costruzione di un altro sistema, questa volta economico, che porti davvero alla ridistribuzione del reddito di cui sopra.
Mi pare scontato (concetto forte, ma ormai l’ho detto) che un sistema del genere non possa vivere con le attuali leggi di mercato, sia perché nasce non “aggressivo”, sia perché si parla di cultura tentativamente non mercificata/abile. Qui ci vuole il “principe illuminato”. E la cosa interessante è che qualcosa del genere già esiste; mi riferisco alla grandemente abusata legge sul finanziamento all’editoria di di cui Report fece interessante reportage. La via secondo me è quella: un sistema virtuoso tramite il quale chi non vive “di mercato” vive di “sovvenzioni” del cittadino, attraverso lo stato. Utopia, lo so…
Ahahah! bellissima tecnica antispam!
Partiamo da una considerazione. In un mondo ideale, dove ci sia una bacchetta magica che permetta ad ogni persona talentuosa di esprimere in pieno il proprio talento creativo, ebbene, la produzione di qualità distribuita al grande pubblico resterebbe comunque una percentuale piccola della produzione (segue dibattito). Il problema qui ed altrove è che questa percentuale è prossima allo zero e questo non è né giusto né accettabile (segue incazzatura).
Le CC sono un motore di una potenza devastante, che nessuno ha ancora ben compreso e per la prima volta si scorgono meccanismi autoprotettivi del cosiddetto “mercato” che andrebbero analizzati per coglierne i lati positivi. In fondo il mercato qualche lato positivo ce l’ha, ad esempio permette a qualcuno di guadagnarsi da vivere. Cosa stiamo chiedendo, precisamente? (ricordo che l’ormai tristemente separata coppia Boldi-De Sica inanellava una quantità di presenze in sala da capogiro) Che qualunque idiota con la videocamera possa guadagnare abbastanza dalle riprese delle sue scarpe rotte? Ovviamente no, ci vuole una forma di valorizzazione che sia orientata alla qualità e qui le CC sono molto deboli e anche lo Stato si è dimostrato molto debole, scandalosamente debole.
Se ci guadiamo intorno ovunque è ormai il mercato che regola il concetto di qualità, qualcuno, ancora pochi per la verità, ha capito che anche la qualità può regolare il mercato.
Le CC sono l’arma ideale per combattere i monopoli, per farsi conoscere, per diffondere idee e tecniche, per imparare e far imparare e forse anche per creare una nuova forma di tutela degli autori. Che poi il mercato vada pure a pescare da lì, nulla da eccepire, forse gli autori avranno imparato a ridefinire il concetto di “esclusiva”.
credo che attualmente il mercato sia semplicemente poco rappresentativo.
assistiamo ad una produzione di contenuti che funziona in quanto martellante, in quanto costantemente proposta e visibile, non conta la qualita’, non conta il messaggio (i reality ne sono un’evidente dimostrazione, ma anche la letteratura di grido e molte altre espressioni). la stessa ricerca scientifica spesso e’ blindata da quanti per blasone possono avere il monopolio delle pubblicazioni scientifiche e mettono il loro nome anche su cose non solo che non hanno scritto, ma nemmeno revisionato.
tutto questo ha un evidente limite rispetto alla diffusione della conoscenza e sviluppo del sapere.
la possibilita’ dell’autore di licenziare la propria opera rendendola fruibile senza perdere in nessun modo la paternita’ della stessa, rivendicando il proprio ruolo autorale e contestualmente liberando la possibilita’ che la propria opera circoli, sia assaggiata, e’ il passo avanti.
creative commons rappresenta questa possibilita’.
la questione dello sbarcare il lunario e’ evidentemente centrale, ma e’ un altro problema.
laddove esiste una qualita’ debitamente proposta (non messa su un sito in attesa che qualcuno la trovi) in modo da avere un appeal, credo ci possa essere l’ingenerarsi di un meccanismo virtuoso che va a favore dell’autore che, uscito dall’anonimato comincia a porsi come soggetto agente.
calcare le scene e’ il primo passo per farne parte, mettere il proprio ingegno e la propria competenza nella condiziopne di essere conosciuta e notata e’ il primo passo per venderla.
e’ un cambio di logica, ma non si abdica alle leggi del mercato, anzi, si interpretano queste leggi proponendo un offerta qualificata ed interessante.
il problema non e’ come si licenziano i contenuti, sta nella capacita’ di veicolarli presso i canali adatti, il resto si fa da se’, se i contenuti sono fruibili e’ molto probabile che l’ingegno che li ha prodotti ne tragga vantaggio.
Innanzitutto grazie mille per le vostre opinioni.
@Claudio: un altro sistema, secondo me, potrebbe essere il coinvolgimento diretto dei fruitori. Mi spiego meglio con un esempio: per la produzione del documentario 13 Variazioni su di un tema barocco. Ballata ai petrolieri del Val Di Noto, è stata lanciata una campagna di sottoscrizione a cui hanno contribuito gli stessi futuri spettatori. Sarebbe utile capire se e quanto è replicabile un\\\’esperienza del genere anche in altri ambiti (per esempio quello letterario).
@Miki: per il sistema antispam, volevo semplificare le operazioni di somma, a me risultano un poco complesse :) Venendo invece a ciò che dici, spero che prima di tutto gli autori ripensino alle loro esclusive perché, con quelle attuali, vanno poco lontano (a meno di non far parte di quei sistemi che ti mandano sulla luna a condizione che… eccetera). Anche perché è l\’utente che fa il mercato e se si trova il modo di parare il condizionamento del mercato (possibile?), allora le possibilità di vivere del proprio lavoro artistico o culturale diventano più concreta. Fattibile? Utopia al pari di quella di Claudio? Ah, e bada, quanto ti candiderai, potrai contare sul mio voto.
@Lele: condivido quello che dici. Ma c\’è da dire anche che artisti, autori e anche ricercatori sono pessimi uomini marketing di se stessi, non sanno valorizzarsi e, spesso, nemmeno hanno il tempo di farlo. Continuo a credere nella necessità di un organismo (azienda, ente o associazione) che, per professione, contribuisca a valorizzare il lavoro di chi si riserva solo qualche diritto. Torna poi l\\\’altro problema – quello del sostentamento – che a questo punto avrebbe anche questa nuova entità. Un serpente che si morde le sue innumerevoli code e a volte riesce a morderne anche diverse contemporaneamente?
Forse sarebbe un dibattito da portare avanti e vedere dove si va a parare.
Dimenticavo o solo aspettavo un po’ di tempo. C’è anche il rovescio della medaglia su cui ragionare. Ok, io sono un imprenditore e voglio fare l’editore non importa di cosa, diciamo a tutto campo (libri, video, musica). Sono avanti e credo nella libera distribuzione, ho soldi e tecnologia. La domanda è: cosa mi proponete per avviare l’attività? in parole povere, come posso guadagnarci?
Tenete conto che non è tanto che voglio diventare smodatamente ricco, cosa che avverrà comunque quando verrò eletto in Senato (a proposito, Antonella com’è che lo sai? :-), per ora mi candido come rappresentante dei genitori alla scuola materna di mia figlia, mi sembra un buon primo passo. Dicevo non è che vorrei guadagnare TANTO è che vorrei guadagnare abbastanza da sopravvivere in mezzo agli squali grandi e piccoli dell’editoria. Io una soluzione (intesa come modello di business non in perdita) top-down non ce l’ho, vedo solo qualche possibilità bottom-up tipo quella della Val di Noto che però non mi sembra replicabile su larga scala. Si può puntare sul “trendy” più o meno come hanno fatto con il biologico una decina di anni fa (i prodotti biologici facevano caghèr ma era molto cool mangiare biologico) o su un mercato che assomigli a quello equo e solidale (eh già ma a chi vendi? avresti tutti contro! o no?). Oppure puntare su sponsorizzazioni chiave (un documentario sull’extreme ironing sponsorizzato da Rowenta, per dire) da decidere in accordo con l’autore? Mumble mumble.
c’era un fake che girava secondo il quale qualche grande player internazionael (non ricordo ma poteva essere google come la coca cola) avrebbe regalato la musica… cioe’ potevi accedere ad un sito dove scaricavi legalmente aggratisse l’ultimo di…. ecco la mia cultra musicale e’ un disastro, sono fermo a rino gaetano :-( ma tant’e’.
Loro dicono che, fatti i conti campano di pubblicita’. Non ho mai verificato la veridicita’ della cosa, mi tengo dei legittimi dubbi, ma d’altra parte l’idea non e’ poi cosi’ peregrina.
Ora io mi domando, ma se vendo i filtri per le caffettiere o le magliette di dolce e gabbana mi devo inventare una campagna di marketing, spendere uno sproposito in pubblicita’ fare i salti mortali e correre la cavallina, se invece vendo contenuti no… perche’ hanno un valore culturale?
Intendiamoci, se alle spalle del mio contenuto c’e’ la mondadori che lo spinge come il titolo di natale, e’ chiaro che si sta parlando di determinate cifre e di determinate situazioni… ma mi piacerebbe capire qual’e’ il modello di business di qualsiasi piccola casa editrice, che fa le pubblicazioni per la provincia, finanziate dalla regione, con il contributo del fondo sociale europeo, sulla mosca bianca del tartufo rosa nelle gole arse della val di sotto.
torno al mio ragionamento iniziale, CC uguale un potenziale ed interessante veicolo per promuovere contenuti in modo da non chiudre gli stessi dentro un media, ma accelerando con forza la possibilita’ che la mente che ha partorito questo contenuti tragga da questa diffusione un vantaggio. se poi dobbiamo discutere di modello di business valutiamo quali contenuti e ci si puo’ anche lavorare intorno.
@Miki: collaborando con alcune realtà editoriali che rilasciano sotto Creative Commons, posso sicuramente affermare che non fatturano meno di altre che conosco sempre dall’interno e che si rifanno al tutti i diritti riservati. Concordo con te che il modello Val di Noto non scala e che è attuabile solo su progetti precisi con forte impatto (sociale, informativo, eccetera). Un amico con buone entrature nel mondo della musica mi faceva notare per esempio che non si guadagna più dai dischi, ma dai concerti: per dare concretezza alla cosa, mi spiegava che per l’assegnazione di un disco d’oro, oggi basta vendere 10 mila copie di un album (una volta era un milione, il che indica esplicitamente un andamento) mentre le major starebbero ripensando i contratti con gli artisti per avere royalty maggiori derivanti dalle esibizioni live. Questo già potrebbe essere un primo elemento di riflessione anche per altri ambiti culturali. (Infine: per la campagna elettorale, non ti preoccupare: medito di diventare smodatamente ricca anche io e a quel punto potrò finanziarla senza problemi. Altro che Rowenta).
@Lele: partendo dalle tue considerazioni, si può tornare al discorso che si svincola dal supporto e che si aggancia all’evento fisico. Si badi, con evento non intendo qualcosa tipo l’MTV Day, con un anno di lavoro preparatorio e milioni di euro di sponsor. Un evento può essere ancora una serie di incontri in libreria, di serate musicali in locali “giusti”, essere presenti ad altri eventi più grandi come Arezzo Wave. Esserci, dunque, come impostazione di un business model che vede nella vendita di un supporto un elemento conseguente e non primario. Per questo continuo a pensare che la promozione del creatore dei contenuti sia l’elemento attorno al quale lavorare. C’è poi da dire che ci sono molti autori a cui non interesse avere un editore (inteso in senso ampio) e il modello di Lulu.com (servizi agli autori: stampa on demand, spedizione, creazione di grafica, loghi, impaginati pagati con una percentuale sul venduto) possa essere un’altra via che non esclude la prima.
Credo che un contributo a ciò che stiamo dicendo possa provenire dal libro appena pubblicato Unbounded Freedom: A Guide to Creative Commons Thinking for Cultural Organizations di Rosemary Bechler.
Aggiornamento. Via Pandemia, poi, si può leggere la Proposta di azioni per dare all\’Italia una posizione leader nei “digital media” di Digital Media in Italia (peraltro rilasciata sotto licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale 2.5).
Una cosina ancora da dire ce l’avrei, dopo aver riletto tutto il thread ed anche un po’ discusso in giro. Un’altra parte in gioco, dopo autori, editori ed utenti sono i produttori. Per il cinema ed in parte anche per la musica il produttore è una figura chiave che per ora sfugge un po’ da tutti questi discorsi. In Italia in particolare con il sistema pubblico di finanziamento così fallace (se dico corrotto qualcuno poi vien fuori dicendo che quello che si legge sui blog non è mica affidabile come quello che si legge su Libero o Repubblica o il Giornale, volete mettere?) la figura del produttore diventa responsabile, assieme alla cronica allergia italica alle operazioni con una certa componente di rischio, della piattezza di cui sopra. Il produttore in questo contesto non crea un “bacino”, non investe sulla crescita, si preoccupa solamente della parte finanziaria allo scopo, legittimo e sacrosanto, di far soldi. Ebbene una possibilità potrebbe essere, appunto, quella di creare un indotto, analogamente a quello che si fa per le società sportive, dove la cura dei lavori “giovanili” è una sorta di coda in perdita di quello che poi viene e prodotto e distribuito su scala nazionale ed internazionale. Una coda in perdita fatta di autori che nel tempo crescono, fanno mercato e mandano avanti il sistema di produzione che così è in grado di selezionare altri giovani e così via. Ci sono un po’ di esempi qua e là (gli Universal Studios, per esempio), ma da noi non c’è mai stato, che io sappia, un serio tentativo di organizzare le produzioni su una scala dal “poco costoso e liberamente fruibile del giovane talentuoso” alla “grande produzione dell’artista affermato”. Anche qui la distribuzione mediante CC è “la” soluzione, permette di abbattere i costi di distribuzione e di creare pubblico, anche molto numeroso, entrambi fattori su cui un produttore anche oggi senza una struttura così bella pone una grande attenzione.