La Lola della Bassa – 3

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Addio ad Antonietta

La Minguzzi stava attraversando piazza XX Settembre quando si imbatté in Antonietta. Un anno e sette mesi erano trascorsi dalla morte della figlia. Ed ecco lì che la madre addolorata sembrava d’improvviso trasformata in un’altra donna: era appena uscita dal parrucchiere che aveva oscurato le striature bianche infittitesi dopo la disgrazia. Le mani, inoltre, non apparivano più quelle di una stiratrice di vecchia data: erano diventate più mordibe, più bianche, malgrado fossero ancora visibili bruciature che solo un miracolo avrebbe potuto cancellare.
Ma a colpire la comare furono soprattutto portamento e sguardo della donna: il primo era eretto mentre il secondo era parallelo alla strada, confinando nel passato gli occhi chini e le spalle incurvate, liberi dall’ombra che Antonietta si trascinava da una vita e che dopo la scomparsa di Lietta si era fatta più incombente.
«Vi trovo bene, signorina,» l’apostrofò Irene con una punta di invidia che non conteneva cattiveria premeditata, ma solo un’aspirazione repressa a una vita migliore a quella di una lavandaia.
«Sì, parto, vado via. Ho trovato da andare a servizio da gente di Cerveteri. Sono gente benestante, nobili e imparentati con un monsignorone. Hanno bisogno di una governante che stia dietro ai bambini, ne hanno quattro, e che faccia attenzione a camerieri, cuoche e inservienti. Abitano in una villa con diciotto stanze e una, anzi no, che dico, due saranno tutte per me. Non metterò più le mani nell’amido e non dovrò più andare in bicicletta con il bello e con il brutto a riconsegnare i panni stirati.»
Le parole di Antonietta uscivano a raffica e Irene era stupefatta. Ma come? Non ne aveva saputo niente, nemmeno una parola era circolata in paese e ora questa poveretta, senza arte né parte, andava a servizio dai parenti di un prelato. Ne voleva sapere di più.
«Oh, ma cosa mi dite? Ci lasciate così? Ma spero che non vi dimenticherete del paese e di chi vi ha prestato una parola buona nelle disgrazie del passato. A quando il trasferimento? E come avete fatto a inciampare in tanta fortuna?»
Fu così che Irene venne a sapere che la data della partenza era per il giorno successivo, di primo mattino, e che il contatto veniva dalla città. Antonietta sapeva quanto facilmente la sua interlocutrice potesse far rimbalzare la notizia per l’intero paese e voleva – anzi doveva, contrariamente a Irene – restare sul vago. Era stata fortunata: conosceva una persona che conosceva un’altra persona che conosceva il religioso. Il quale si sarebbe lamentato della difficoltà nel trovare gente di servizio come si deve, della mancanza di fiducia di cui i cugini di Cerveteri soffrivano verso i domestici e di come la governante precedente avesse iniziato tempo addietro a trascurare i suoi doveri nei confronti dei bambini e dei genitori che la stipendiavano. Così era arrivato il turno Antonietta, l’occasione per riscattarsi.
«Ma come avete fatto a organizzare il vostro trasferimento così velocemente?»
«Non c’è molto da organizzare. Il tempo di sentire la proposta, vedermi offerta una paga che neanche con mille camice alla settimana mettevo insieme e la decisione era presa.»
«Avrete bisogno di qualcuno che vi aiuti, che porti le valige e pacchi. Un trasloco non si fa dalla sera alla mattina.»
«Nessuno mi aiuterà perché non porterò con me quasi nulla. Solo la foto di Lietta troverà posto nella mia borsa. Il resto lo venderò e così metto da parte due lire per quando mi ritirerò.»
Se, parlando del “resto”, Antonietta intendesse vestiti e mobili che possedeva, aveva poco da star tranquilla in vecchiaia. Ma se comprendeva anche la casa dei suoi genitori, scomparsi l’inverno precedente con l’epidemia d’influenza che aveva accompagnato i freddi straordinari di quei mesi, allora il discorso cambiava. Era una casa di contadini, mattoni d’argilla e coppi rossi, niente di lusso, niente di cui avesse potuto godere dopo il concepimento della bambina, ma valeva pur qualcosa e, in attesa che la guerra finisse, poteva anche diventare una rendita appetitosa.
«Vendere? E chi venderà se voi sarete via?»
«È già tutto organizzato. Non ho niente di cui preoccuparmi»
«Sarò la benvenuta se verrò a farvi visita?» buttò lì Irene in preda a una curiosità che le bruciava dentro.
«Sarà mio piacere,» rispose Antonietta, consapevole, come lo era la comare della sua curiosità, che Irene non stava dimostrando interesse per lei, ma per quell’inaspettata vicenda che mai, da quelle parti, aveva visto come protagonista una donna povera e limitata come lei.
«Vi auguro ogni bene,» concluse la Minguzzi. Ormai aveva capito di non poter scucire altri particolari all’Antonietta rifiorita che il mattino successivo sarebbe salita su un treno per non fare più ritorno da quelle parti.
«Grazie,» si accomiatò l’ingenua. La quale, ascoltando i previdenti consigli dell’artefice di quell’occasione, si scopriva d’improvviso meno sprovveduta di fronte alla brama di chi voleva unicamente sapere senza averne titolo.
A Irene non restò che seguirla con lo sguardo mentre Antonietta tornava al suo cammino. Ma non stava rincasando. Lasciata via Garibaldi, la vide svoltare in via Roma e scomparire dietro l’angolo. Si affrettò dunque a raggiungere l’incrocio e a celarsi dietro il muro, ma di Antonietta non c’era traccia. A lasciar presagire la sua destinazione, lo scampanellio d’ingresso del negozio di Lola che si ripeté di lì a qualche momento preannunciando l’entrata nella sua visuale di Carlotta Galeppi.

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