Attenzione, segue spoiler. Se il film non è ancora stato visto, se ne tenga conto. Del documentario si è parlato moltissimo e quasi sempre in termini positivi. In effetti il film di Michael Moore è davvero notevole. A parte alcune sbavature coincidenti più che altro con commenti personali del regista che abbassano il livello giornalistico della pellicola, è una storia che avvince, ottimamente giocata da immagini di repertorio, dissolvenze, innesti satirici, spot pubblicitari, falsità politiche, conteggi che non tornano e ranch texani. Ma, soprattutto, emergono le costanti commistioni tra politica e affarismo, petrolio e cariche pubbliche, finanziamenti sauditi e crack finanziari statunitensi. Il tutto innestato in storie di madri patriottiche, “democratiche conservatrici” con famiglia multietnica e due figli in due guerre del Golfo. Il secondo muore e la mamma inizia ad aprire gli occhi arrivando, per essere insultata, davanti alla Casa Bianca. Equilibrato poi l’affresco che si dà dell’esercito statunitense, fatto di tardo adolescenti che ascoltano i Bloodhoud per caricarsi prima della battaglia, ragazzi che si rendono conto di avere davanti civili e non miliziani, pazzia divenuta normalità che trasforma militari in aguzzini, ufficiali che non capiscono più il senso della guerra e riservisti che rischierebbero il carcere pur di non tornare in Iraq. Un elemento emerge su tutti: la paura, il più spontaneo e atavico dei sentimenti umani, usata, amplificata, voluta, innescata e strumentalizzata con sistematica onnipotenza che non teme la falsità. Perché, si sa, un certo tipo di profitto non fa differenze tra nazionalità, armamenti convenzionali o di sterminio di massa, torri che crollano e informative dell’intelligence.
Link da tenere presente: Fahrenheit 9/11 Notes + Sources
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