Pentiti di niente: “Quel sequestro doveva sembrare roba di mafia, non di politica”

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Carlo SaronioAlla fine si scoprirà che il memoriale di Carlo Fioroni non avrà una consistenza molto maggiore rispetto a quello di Marco Pisetta. Però al momento gli viene tributata credibilità. Infatti, tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, Fioroni inizia con il rievocare la terza conferenza nazionale del settembre ’71 a cui partecipa come delegato della sezione di Milano, ma viene escluso dagli incontri al vertice riservati a Franco Piperno, Toni Negri, Oreste Scalzone, Mario Dalmaviva e Valerio Morucci.

Rientrato però nel capoluogo lombardo, si vede convocare dal professor Negri che lo informa della nascita di Lavoro Illegale, braccio armato di POTOP sotto la direzione politica di Piperno e militare di Morucci. A livello regionale si è deciso che ne faranno parte lui ed Emilio Vesce e il loro lavoro deve rimanere assolutamente riservato, sconosciuto anche al servizio d’ordine che mantiene i suoi scopi difensivi. Fioroni si occupa soprattutto della creazione della rete comasca di Lavoro Illegale, capeggiata da Cecco Bellosi e costituita dallo stesso Piperno con l’aiuto di Fioroni e del compagno “Siro”, in seguito identificato come Silvano Gelatti e arrestato l’11 marzo 1981.

Fioroni dichiara ancora che il suo compito era di allestire la rete logistica milanese, rifornire l’arsenale, occuparsi della tecnica militare e tenere contatti con i nuclei in fase di allestimento in Svizzera, paese che inizierà a frequentare con costanza e che farà raggiungere ai compagni nei guai con la giustizia italiana. È il caso – dice – di Caterina Pilenga, programmista Rai di Milano, presso cui il militante di POTOP farebbe alloggiare due terroristi appartenenti alla Brigata XXII Ottobre e ricercati per l’omicidio Gadolla. Ma con le attività demandate al servizio d’ordine non ci deve avere nulla a che fare. Mai. Solo che in vista della manifestazione milanese per il secondo anniversario della strage di piazza Fontana, Toni Negri gli ordina di mettere a disposizione il suo appartamento di via Galileo Galilei per la fabbricazione delle 351 molotov sequestrate poi dalla polizia.

A causa di questo e delle successive perquisizioni che portano al ritrovamento di documenti riservati e di armi, Fioroni verrebbe prelevato da Negri e da un altro compagno, Ferruccio Gambino, per essere portato a casa di Alberto Magnaghi davanti ai responsabili dell’organizzazione: Dalmaviva, Vesce, Giairo Daghini e alcuni legali di Soccorso Rosso. L’accusa: aver messo a rischio l’organizzazione militare affittando l’appartamento a nome proprio. Ne era seguita una commissione d’inchiesta e Fioroni aveva dovuto fare autocritica. Però intanto Vittoria Pasquini era finita nelle mani della polizia con le conseguenze già raccontate e il responsabile militare di Milano si era visto costretto a dare dimissioni ufficiali contribuendo alla diffusione della notizia che lui con POTOP non aveva più nulla a che spartire.

In realtà – prosegue Fioroni – la sua uscita era pretestuosa ma necessaria per salvaguardare il suo incarico che a questo punto dal capoluogo lombardo sarebbe continuato in Svizzera. In merito invece all’altro appartamento intestato a Fioroni, quello di via Legnano, il suo scopo era quello di foresteria di Potere Operaio per i militanti a tempo pieno. Proprio qui si tenevano gli incontri del vertice tra cui, dopo i fatti consumatisi tra l’11 e il 12 dicembre 1971, un duro scontro tra Toni Negri, che sosteneva la necessità di militarizzare le masse operaie, e Franco Piperno, secondo il quale invece Lavoro Illegale andava sostituito con una nuova struttura, il FARO (Forze Armate Rivoluzionarie Operaie).

A prevalere sarebbe stato Piperno che così avrebbe potuto dare corso a un piano che, in base alle dichiarazioni di Fioroni, risaliva al dicembre 1969: in questo periodo infatti tramite Oreste Scalzone viene in contatto per la prima volta con Giangiacomo Feltrinelli che, passato alla clandestinità dopo i fatti di piazza Fontana, sarebbe stato prima nascosto da lui e poi lo avrebbe aiutato a riparare in Svizzera.

Tra Fioroni e Feltrinelli a questo punto sarebbe stata amicizia fraterna, consolidata dai rapporti che coltivano per conto delle rispettive organizzazioni occulte, dallo scambio di documenti falsi e dall’acquisto di armi tra Vaduz, nel principato del Liechtenstein, e Lugano. Infine c’è il ruolo di “agente di collegamento” tra i compagni Osvaldo e Saetta e gli accrediti che Fioroni riceveva da Feltrinelli: 3 milioni sul conto corrente aperto presso l’agenzia milanese di piazzale Piola del Banco di Napoli usati – spiega il pentito – per stipendiare a 70mila lire al mese coloro che militavano a tempo pieno nell’organizzazione militare di Potere Operaio. Altri 12 milioni dovevano essergli recapitati tra il 14 e il 15 marzo 1972 attraverso Valerio Morucci, ma arriva prima l’esplosione di Segrate.

A questo determinante punto di svolta se ne aggiungono altri: la campagna sempre più feroce contro i fascisti; il rogo di Primavalle, quando tra il 15 e il 16 aprile 1973 Stefano e Virgilio Mattei, figli del segretario della sezione romana del MSI, muoiono nell’incendio doloso della loro abitazione appiccato da incontrollabili compagni di POTOP; e il convegno di Rosolina che di fatto segna la fine dell’esperienza di Potere Operaio.

Secondo Fioroni, il suo mentore Toni Negri, di fronte alla frana che travolge anni di lavoro e di attivismo politico, convoca poco tempo dopo una riunione ristretta a Padova a cui partecipano Egidio Monferdin, Silvana Marelli, Toni Liverani e Toni Temil. Forse c’è pure qualcun altro, ma Fioroni non ricorda bene e lancia lì qualche nome. All’ordine del giorno il rapido potenziamento della struttura militare clandestina nelle fabbriche per giungere ai primi nuclei di organizzazioni autonome. Il percorso per arrivare a questo risultato passa per la selezione di elementi interni ed esterni alle fabbriche, l’addestramento ad atti di sabotaggio e contestuali rivendicazioni salariali condotte al di fuori dei sindacati.

Il primo nome di questa organizzazione è “Centro Nord”. In essa sarebbe poi confluito – sempre secondo il memoriale acquisito agli atti del processo Saronio – anche il collettivo di Rosso e la sua crescita avrebbe dovuto portare a “un’organizzazione informale ma ferrea, capace di esprimere una produttività mafiosa”. Di qui alla creazione di Autonomia Organizzata il passo sarebbe stato breve: nel racconto di Fioroni siamo nel febbraio 1974 a Milano, per conto di Negri ha intrattenuto nel periodo del suo “esilio” svizzero rapporti con il movimento tedesco “Due Giugno” 31 e consolidati già da mesi sarebbero invece i contatti con le Brigate Rosse.

In tutto ciò il pentito si ascrive un ruolo tutt’altro che secondario, tanto che sostituisce Negri, quando questi non può partecipare agli incontri con le BR, come avviene all’inizio del 1973 a Pavia per convincere – inutilmente – Renato Curcio a rilasciare un’intervista con cui spiegare la strutturazione del suo gruppo. Nelle dichiarazioni di Fioroni, è a questo punto che salta fuori il nome di Carlo Saronio, ingaggiato come autista: con la sua Alfa Sud bianca deve portarlo a Torino per presenziare a un altro incontro tra Curcio e Negri, fissato nei pressi di un cimitero, durante il quale ci sarà uno scambio d’armi da riportare a Milano. In un’altra occasione, e poi ancora in una successiva, era stata utilizzata una fattoria di Saronio nel pavese, dove Fioroni e Negri giungono sempre con l’ingegnere a bordo della sua vettura.

Ma arriva nel dicembre 1974 il sequestro della lista dei compagni che possono dare ospitalità a chi deve sparire, sequestrata in casa dei coniugi Strano-Pertramer, e arriva anche il mandato di cattura per Carlo Fioroni emesso dal giudice istruttore di Torino. Per cui deve lui stesso scappare in Svizzera e chiede a Toni Negri di procurargli del denaro. Lo avrà entro un paio di giorni, gli prometterebbe il professore padovano, che starebbe per concludere un grosso “esproprio” allo zuccherificio di Argelato, dalle parti di Bologna, per un valore di una trentina di milioni. Quel denaro però non arriva perché la rapina, compiuta il 5 dicembre 1974, si concluderà con un conflitto a fuoco in cui muore il brigadiere Andrea Lombardini: le indagini sul momento si indirizzano verso gli ambienti dell’Autonomia Operaia del capoluogo emiliano.

In seguito Fioroni si vedrà proporre sempre da Negri di rientrare clandestinamente in Italia per assumere la direzione politica dei NAP (Nuclei Armati Proletari) di Napoli, ma rifiuta perché in quel periodo sta attraversando un periodo di crisi e fa un uso troppo disinvolto di tranquillanti. Meglio occuparsi di compiti più calmi, come la rete logistica francese, ma alla fine rimpatria nel febbraio 1975 e riprende i contatti con i vari gruppi che conosce e con lo stesso professore di Padova che si stava occupando di creare una rete di rifugi sicuri tra la Lombardia e la Liguria e aveva bisogno di un supporto militare. Fioroni è pronto: va in Veneto, gioca un po’ al praticante bombarolo, ma poi lascia stare perché troppo pericoloso. Fine del progetto.

Si tenga sempre conto che tutti questi fatti, messi uno dietro l’altro, corrispondono solo per minima parte alla reale successione degli eventi. Se la rapina di Argelato accade davvero e Toni Negri finirà per essere condannato per concorso morale in questo reato nella seconda metà degli anni Ottanta, il resto è tutto fumoso e solo qualcosa di ciò che dice è suffragato da indagini giudiziarie. Il resto è un bizzarro lavoro di cucito che mette insieme fantasie, nomi di personaggi, organizzazioni che, pur attivi durante gli anni di piombo, avevano avuto scarsi o nulli contatti l’un con l’altro. E se la ricostruzione cronologica che fa Fioroni a questo punto dovrebbe innestarsi sulle risultanze del processo di primo grado per il sequestro e l’omicidio di Carlo Saronio, accade che gli inquinamenti delle false verità arrivano anche qui, la storia cambia in modo radicale, perché – dice Fioroni – “dal terribile si entra nell’orrido”.

I giudici di secondo grado gli credono, lo vedono così sofferente ma determinato nel voler raccontare quella che lui chiama la verità, che sembrano credergli. Lo fanno quando dice che Oreste Strano è diventato un effettivo del gruppo di Toni Negri portando in dote una buona dose di armi e lo fanno di nuovo quando racconta di averlo sostituito nel febbraio 1975 a un incontro con un criminale comune da inserire nell’organizzazione: Carlo Casirati, che si presenta all’appuntamento con Rossano Cochis.

Gli era piaciuto, questo Casirati, che scarseggiava a cultura politica ma era uno risoluto, un uomo d’azione, sul cui arruolamento Toni Negri aveva già dato la sua approvazione. Ma Fioroni ha però ancora la testa persa dietro il progetto della logistica francese e lo spiega ai compagni milanesi e padovani. Inutilmente. Il 2 e il 3 marzo 1975 si trova nella villa di Bogliasco di Carlo Saronio insieme a Maria Cristina Cazzaniga quando viene a sapere che la donna di Casirati, Alice Carobbio, è stata arrestata mentre tentava di ricettare un quadro espropriato per finanziare l’Autonomia Organizzata. Lo informano inoltre che Casirati sta assumendo informazioni sul suo ospite per sequestrarlo e devolvere il riscatto alla causa. Fioroni deve parlargli subito e Casirati ammette il piano aggiungendo che il rapimento è stato progettato così bene che sembrerà opera della mafia, non dei gruppi politici.

E che non si preoccupi: all’ingegnere non sarò torto un capello, lui si fa garante della sua incolumità e anzi, se Fioroni vuole avere ulteriori rassicurazioni, che partecipi lui stesso al “grosso affare”. Va bene, il politico ingoia le perplessità e la repulsione che – dice – la proposta gli suscitano e accetta di fare la sua parte combinando un appuntamento tra Saronio e Casirati. Inoltre, venuto a sapere che il piano comprende la comparsa di falsi carabinieri, deve fornire anche informazioni sugli spostamenti dell’ingegnere in modo che il commando possa intervenire nel momento più opportuno. Dunque il 14 marzo Carlo Fioroni e Carlo Saronio si incontrano intorno a mezzogiorno, chiacchierano e la futura vittima racconta loro che ha in programma un’uscita serale con gli amici. Rientrerà intorno all’una di notte. Il piano è pronto.

Di qui in avanti la successione degli eventi torna simile a quanto già dichiarato in istruttoria e nel dibattimento precedente: Saronio, già prigioniero, rifiuterebbe di collaborare e Fioroni dà a Casirati le informazioni sulla foto scattata in America Latina e sulla cagnetta di Bogliasco. Se non fosse per le reazioni negli ambienti della sinistra extraparlamentare alla notizia del sequestro: Toni Negri interviene per placare gli animi creando una inconcludente commissione di inchiesta e tra i compagni di Padova si dice che “se è vero che è stato Antonio aspettiamo anche abbia concluso […], che prenda i soldi e poi lo facciamo fuori prendendo il denaro”. In quel periodo – racconta ancora Fioroni – sembrava dai discorsi degli uomini di Negri che il problema dell’autofinanziamento si fosse misteriosamente risolto dato che nessuno ne parlava più. E a pagamento avvenuto inizia il giro di quattrini da riciclare.

Ma Saronio, che non ricompare, che fine ha fatto? “Ero fermamente convinto,” dice il professorino, “che […] fosse vivo. Tale speranza la alimentai per molto tempo, anche dopo il mio arresto. Carlo Saronio era uno dei miei migliori amici e in quel mondo assurdo dell’organizzazione aveva stabilito con me il rapporto meno disumano e più autentico. Sono intimamente convinto di essere stato strumentalizzato e coinvolto proprio perché si sapeva di questa amicizia che avrebbe costituito, una volta liberato il Saronio, una remora per lui di perseguire i responsabili”.

A ulteriore sfregio della memoria di colui che definisce “uno dei miei migliori amici”, continua a raccontare che i sequestri a scopo di finanziamento erano stati argomento trattato dal gruppo dirigente di Autonomia Organizzata (per questo Negri aveva tentato di mettere in piedi una rete di rifugi sicuri che dovevano servire anche come prigioni) e di averne addirittura parlato con Carlo Saronio. Il quale – dice – si era riservato di fornire informazioni sulla famiglia Invernizzi che viveva nello stesso condominio di corso Venezia in cui abitava anche lui con la madre.

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