Pentiti di niente: il compagno Saronio, la vittima sacrificale e sacrificabile

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Carlo SaronioNel 1968 Carlo Saronio è ancora uno studente universitario, frequenta la facoltà di ingegneria e non rimane insensibile a ciò che avviene in Francia durante le rivolte studentesche. In quel periodo però si tiene lontano dal fervore che attraversa anche l’Italia e con un gruppo di amici preferisce dedicarsi ad attività filantropiche per le vie di Quarto Oggiaro. Punto di riferimento è la parrocchia e a coordinare i ragazzi c’è un sacerdote, don Giovanni Beltramini, che conosce personalmente Saronio e al quale è legato da un rapporto di amicizia.

Anche se l’esperienza del gruppo di volontariato non dura molto e non va oltre il 1969, Saronio continua a frequentare il parroco e il quartiere e in quel periodo visita per la prima volta l’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, entusiasmandosi per gli studi che qui vengono condotti. Così, pur non essendo ancora prossimo alla laurea, presenta una domanda e viene ammesso a un programma di ricerca sugli enzimi. Qui tornerà anche dopo aver terminato gli studi dedicando – ha detto chi lo ricorda – almeno quattordici ore al giorno al suo lavoro. Impegno e risultati finiranno per attirare su di lui l’attenzione dei superiori, tanto che a un certo punto gli verrà assegnata una borsa di studio: un anno di specializzazione a partire dall’autunno 1973 all’università di Philadelphia.

Ma in quegli anni c’è l’incontro, oltre che con la scienza, anche con la politica, con Potere Operaio e con Carlo Fioroni che frequentava Quarto Oggiaro per promuovere e coordinare la militanza nel quartiere. Chi ha conosciuto Carlo Saronio lo ha sempre descritto come un ragazzo timido e gentile. Dagli amici veniva chiamato il “salice piangente”, per via della curva delle spalle e della schiena e per un’ombra di tristezza che gli attraversava il volto anche quando sorrideva.

Apparteneva a una delle famiglie più facoltose di Milano, un tempo a capo delle Industrie Farmaceutiche Carlo Erba, ma la ricchezza sembrava pesargli, quasi che quei privilegi di cui aveva goduto fin dalla nascita più che una possibilità di realizzazione fossero una colpa, motivo di imbarazzo nei confronti di chi aveva avuto meno e faticava ad arrivare alla fine del mese. Anche per questo – è stato ipotizzato – si era dedicato al volontariato in un quartiere che di certo non brillava per il tenore di vita dei suoi abitanti. L’unica eccezione a uno stile sobrio, a tratti austero, era per la sua passione: le automobili. Possedeva infatti una Porsche e una Giulia 1600 super.

In proposito, ricorda Francesco Bellosi, militante di Potere Operaio nato a Colonno, sulle rive del lago di Como, arrestato nel 1980 per attività sovversive e rimasto in carcere per i successivi dieci anni:

Una volta dovevo andare di fretta a Torino con la Cinquecento per portare dei volantini a una manifestazione, ma rimasi a piedi. Mi disse: ‘Se hai fretta, ti conviene prendere la Porsche, che va più forte’. Gli chiesi se avesse idea di cosa voleva dire presentarmi a una manifestazione di comunisti incazzati con un’auto del genere: una brutta fine per la macchina e per chi ci stava dentro. Andai così con la Giulia, che non rappresentava comunque il massimo per l’occasione, provando l’ebbrezza di una velocità folle con la scusa di arrivare in tempo. Al ritorno, feci una strada provinciale: provando una ripresa, sbandai sulla ghiaia ai lati, andando a finire in mezzo ai tavoli di una trattoria imbandita per un matrimonio. Per fortuna, senza danni per nessuno”18. Ma poi si avvertiva la differenza di estrazione sociale e il rimescolamento di stomaco era inevitabile, scattava in automatico.

Nella stessa intervista, racconta ancora Bellosi al giornalista Aldo Grandi:

Una sera d’inverno, con Oreste [Scalzone, N.d.A.], vedemmo prima Giangiacomo e poi Carlo Saronio. Terminate le riunioni, dovevamo prendere l’ultimo tram. Il biglietto costava settantacinque lire. Frugando nelle tasche, riuscimmo a mettere insieme centoventi lire: non avevamo i soldi per salire. Oreste mi guardò e disse: ‘Ti rendi conto? Siamo stati finora con due delle persone più ricche di Milano, forse d’Italia, e dobbiamo fare la colletta per il tram. Ma non mi cambierei con nessuno dei due: sono troppi tristi’,

Nessuno di loro, i veri compagni, si sognava di fare del male a Carlo Saronio, di carpire in modo così rapace – come invece accadrà nel 1975 a opera di Fioroni e dei suoi complici della mala lombarda – il suo denaro, né tanto meno la sua vita: per loro la tristezza che l’editore rivoluzionario e l’ingegnere attivista si portavano addosso era già un fardello abbastanza ingombrante.

Quando Saronio fa la conoscenza di Fioroni, viene a sapere per certo anche delle traversie giudiziarie dell’uomo e una conferma di ciò sembra derivare dal fatto che Saronio, quando lo inviterà a casa sua, lo presenta ai familiari con un nome falso. Inoltre il suo coinvolgimento nelle attività di Fioroni al limite e oltre la legalità avrebbero toccato fino a un certo punto l’ingegnere tanto da far pensare che avesse pochi contatti con gli altri militanti che in quel periodo operavano nell’ambito dell’estrema sinistra.

In caso contrario infatti non sarebbe stata necessaria alcuna mediazione per l’ospitalità a compagni con problemi logistici. Invece la mediazione è così indispensabile da venire appuntata nella lista ritrovata a casa di Brunilde Pertramer poco meno di un mese prima della sparizione del giovane. Carlo Fioroni, quando viene catturato e finalmente ammette di aver avuto a che fare con il delitto, definisce il rapimento del compagno-amico una “conseguenza aberrante” di un modo di fare politica e di intendere l’intervento politico che deve essere finanziato in qualche modo. Sequestro a scopo di estorsione compreso.

Ma non aggiunge altri elementi che chiariscano più nel dettaglio le motivazioni che lo hanno mosso. Analogo comportamento assumono anche Maria Cristina Cazzaniga e Franco Prampolini che non riveleranno nomi di altri complici: sarà impossibile per il momento aggiungere ulteriori dettagli alla ricostruzione completa della vicenda. Dunque il quadro a cui si arriva alla fine della fase istruttoria comprende elementi che riassumono in modo esaustivo le singole responsabilità, riconosciute anche in sede processuale, degli imputati, ma rimane comunque una sensazione di incompletezza. O forse manca più semplicemente una risposta a quesiti di natura più morale che politica o economica: come si fa a rapire un amico, uno da cui si è ricevuto aiuto concreto in più di un’occasione, per estorcere denaro alla sua famiglia? E soprattutto come si fa a tacere la sua morte a cui, forse, si è contribuito pur non essendo presente nell’auto che ha portato via Saronio?

Nonostante il silenzio su queste domande, il quadro accusatorio che scaturisce dalle indagini appare convincente. Saronio dispone di diverse case e può dare ospitalità ponendo pochi limiti temporali a chi si fosse trovato in difficoltà tanto che, come si è visto, lo stesso Fioroni ne usufruisce nel periodo in cui è ricercato per ordine della procura di Torino. Inoltre quando lascia la casa di Saronio ha già un’altra copertura procuratagli dall’ingegnere: la mette a disposizione don Beltramini, il parroco di Quarto Oggiaro, che conoscerebbe la reale identità di Fioroni, anche se al processo dirà che gli era stato presentato come Dario e così aveva continuato a chiamarlo, e i motivi della sua latitanza.

Non sarà l’unica volta che il religioso si presta su richiesta di Saronio: c’è stato un episodio precedente, che risale al dicembre ’74. Saronio, di cui ignora la militanza nelle fila di Potere Operaio, gli chiede di andare con lui in Svizzera per accompagnare oltre confine Carlo Fioroni. E il sacerdote accetta, pur trovando strano il fatto che si viaggerà con due automobili: su una ci sono Saronio e Fioroni e sulla seconda il parroco.

Le abitazioni di Saronio però a un certo punto sono bruciate: con l’irruzione dei carabinieri in casa di Brunilde Pertramer e Oreste Strano il 22 marzo 1975 e il ritrovamento della lista dei fiancheggiatori politici, il suo aiuto non serve più perché le forze dell’ordine sono ormai a conoscenza del suo coinvolgimento. Inoltre Fioroni, quando va da Saronio per chiedergli denaro, si vede consegnare solo 500mila lire, molto meno di quello che il compagno-amico poteva dargli, e quei soldi non li riceve nemmeno direttamente da lui, ma da don Beltramini: di qui probabilmente inizia a crescere il rancore del latitante nei confronti della sua futura vittima. Intanto il sacerdote si chiede – e chiede a Saronio – il motivo dei giri di denaro: perché dargli un assegno intestato a lui da riscuotere per girare i contanti a Fioroni? “Non voglio che la mia famiglia se sappia niente,” risponde l’ingegnere. Del quale andrà a chiedere al prete una donna, dopo il sequestro, una sconosciuta che entra nel confessionale, cerca di avere notizie in merito alla sua sparizione, e poi scompare senza tornare mai più.

Non da ultimo, Saronio non conosce in modo approfondito l’organizzazione clandestina che sta dietro agli ex di Potere Operaio e dei GAP, ma probabilmente ne sa abbastanza per mettere nei guai un po’ di persone e per mandare all’aria qualche azione, se venisse interrogato. Tanto sembra bastare dunque per fare di Saronio un personaggio non più utile, forse addirittura deleterio, se non fosse per la consistenza del suo conto corrente. Morto Feltrinelli, infatti, serviva comunque qualcuno con una certa disponibilità finanziaria. Se dunque Carlo Saronio sarebbe uno a cui chiudere la bocca, conviene agire avendo prima pensato. E l’idea che inizia a farsi strada nella mente di Fioroni è quella che porterà alla morte il ragazzo: rapirlo una sera mentre raggiunge gli amici o rientra da un appuntamento. La banda però non avrebbe avuto intenzione di ammazzarlo: Saronio da ostaggio vale più che da morto.

Architettare un sequestro di persona può essere quindi un buon modo per attingere a quel conto corrente e si ottiene al contempo anche un risultato politico: si getta infatti ulteriore discredito sullo “Stato borghese” che non solo non riesce a tutelare le classi più disagiate e non è in grado di reprimere le rivolte che ne derivano, ma non sa nemmeno proteggere quelle fasce sociali che più di altre traggono vantaggi dalla sua esistenza, i ceti medio-alti.

Infine, quando si inizia a progettare il rapimento, a Fioroni e ai criminali comuni con cui organizza il sequestro sembra un’operazione facile e di quelle lucrose, un’operazione che nel giro di pochi giorni dovrebbe fruttare qualche centinaio di milioni senza troppi rischi, se le diverse fasi vengono gestite da professionisti del settore, come Casirati e De Vuono.

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