Pentiti di niente: lo strano compagno che girava con una vecchia Glisenti scarica

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Carlo SaronioCarlo Fioroni è un personaggio strano, controverso, antipatico. Anche ambiguo, per i suoi ex-compagni di Potere Operaio che lo hanno soprannominato il “professorino”, un po’ perché insegna alle scuole medie e un po’ perché si atteggia a saputo con i compagni. Solo alla fine degli anni Settanta dirà ai giudici che questo atteggiamento al contempo spocchioso e dimesso era stato studiato per salvaguardare nel periodo della sua presunta clandestinità sia lui che il gruppo all’interno del quale operava.

Nella prima fase della sua militanza, quando inizia ad avvicinarsi a Potere Operaio, sono ancora da venire le dubbie dichiarazioni e il quantomeno discutibile – quando non proprio mendace – memoriale che Fioroni scriverà nel carcere di Matera contribuendo ad alimentare le accuse mosse nel processo “7 aprile” contro Antonio Negri, Oreste Scalzone, Nanni Balestrini, Alberto Magnaghi, Gianni Sbrogiò, Augusto Finzi, Francesco Bellosi, Lucio Castellano, Mario Dalmaviva, Luciano Ferrari Bravo, Alberto Funaro, Libero Maesano, Giovan Battista Marongiu, Jaroslav Novak, Gianfranco Pancino, Giorgio Raiteri, Adriana Servida, Francesco Tommei, Emilio Vesce, Paolo Virno, Lauso Zagato e Domenico Zinga.

Dalla fine degli anni Sessanta al sequestro Saronio, il nome di Carlo Fioroni emerge a più riprese. C’è il suo rapporto con Giangiacomo Feltrinelli e con i GAP, i Gruppi di Azione Partigiana, di cui si parlerà più avanti. C’è l’appartamento di via Bruschi a Milano, lo stabile dove anni più tardi verrà rinvenuta la tipografia delle Brigate Rosse, “l’appartamento [che] era di un compagno ritenuto da tutti affidabile, intellettualmente preparato, anche se piuttosto pasticcione sul piano pratico: Carlo Fioroni”. È colui che va dai compagni, come accade a Franco Berardi, e li bolla come “non veri bolscevichi”, sentendosi rispondere: “Non me ne dispiaccio affatto”, ma che a sua volta viene giudicato senza mezzi termini: “non era solo troppo debole di carattere per fare il rivoluzionario, ma anche il pentito”.

Carlo Fioroni nasce a Cittiglio, in provincia di Varese, il 18 giugno 1943 e in paese c’è chi sogghigna di un suo vezzo: andare in giro custodendo sempre in tasca una vecchia Glisenti scarica, una pistola calibro 9 progettata all’inizio del Novecento e utilizzata nelle due guerre mondiali dal Regio Esercito per venire sostituita tra il 1942 e il 1943 dalla Beretta 34. Uno scatto di ciò che appare altruismo verso i compagni Maria Cristina Cazzaniga e Franco Prampolini sembra avercelo quando inizia ad ammettere il suo coinvolgimento nel sequestro di Carlo Saronio: il loro ruolo, dice infatti, si sarebbe limitato al riciclaggio del denaro, ma ne ignorerebbero l’effettiva provenienza: il riscatto.

Non chiedono, i due, ma non esiterebbero a prestarsi perché – secondo quanto dice Fioroni – rispettano per fede politica di svolgere determinate attività nell’ambito di Soccorso Rosso, organizzazione articolata in Italia e all’estero che, a partire dagli anni Settanta, fornisce assistenza a più livelli (legale, economica e logistica) ai compagni che ne hanno bisogno. E Fioroni aggiunge un’informazione che rimane non dimostrata e dunque altro non è che veleno: secondo lui, se gli scopi ufficiali di Soccorso Rosso sono noti a tutti, ce ne sono altri che fanno capo a strutture clandestine. A esse Prampolini, di cui si fida e che conosce dai tempi dell’università, avrebbe aderito o di esse ne era quantomeno a conoscenza.

Sono i temi, questi, che gli avvocati difensori di Prampolini e di Cazzaniga utilizzano per ribattere le accuse: i reati compiuti dai loro assistiti sono la “conseguenza aberrante” dell’aiuto concesso a un compagno politicamente emarginato com’era Carlo Fioroni dopo la morte di Feltrinelli, lo spostamento di molti personaggi dei GAP e POTOP verso le Brigate Rosse e la fine dell’esperienza di Potere Operaio stesso, nel 1973, dopo il rogo di Primavalle (16 aprile) e il convegno di Rosolina (giugno).

Fioroni, per assicurarsi la collaborazione dei due compagni, aveva come unica arma a proprio favore una rete di contatti su cui far leva utilizzando la sua fama di militante rivoluzionario. E per fare ciò poteva scegliere tra due canali principali: rivolgersi a quei giovani borghesi che, in forza di una sorta di senso di colpa derivante dalla loro posizione sociale avvantaggiata, erano disponibili a sporcarsi le mani; inoltre coinvolgere la criminalità comune che, meglio se alla ricerca di una qualche motivazione politica, come si diceva di Rossano Cochis, il proprio tornaconto ce l’aveva assicurato. Più o meno.

Carlo Fioroni non era un nome sconosciuto per le forze dell’ordine, già si era fatto notare il 25 febbraio 1972. Siamo a Quarto Oggiaro, quartiere popolare della periferia milanese, e c’è un gruppo di giovani che si sposta in automobile per mettere nelle cassette delle lettere volantini firmati da “Lotta Continua, Potere Operaio – Gruppo Liberatorio di Quarto Oggiaro”. Se il volantinaggio sembra uno dei tanti di quel periodo, ad attirare l’attenzione della polizia è il contenuto di fogli che vengono distribuiti, contenuto che appare molto simile al testo diffuso dalle Brigate Rosse per rivendicare pochi giorni prima tre attentati a colpi di molotov contro presunti fascisti.

La casa di Fioroni, che si trova a Milano in via Casati 39, viene quindi perquisita il 29 febbraio e saltano fuori documenti falsi: una prima carta d’identità su cui c’è la fotografia dell’uomo ma le generalità indicate sono quelle di Lorenzo Maggi, una seconda della moglie di Fioroni a nome di Marcella Voltri e una patente di guida rilasciata a Sandra Diotto, smarrita e denunciata nel settembre dall’anno prima. Infine salta fuori anche un appunto che fa riferimento a un altro alloggio, quello di via Galileo Galilei 6, già finito al centro di un’indagine alla vigilia del secondo anniversario della strage di piazza Fontana. Poi un caricatore per una pistola calibro 9: Fioroni, quando gli agenti di pubblica sicurezza gli piombano in casa, ha addosso una pistola ma riesce a disfarsene mentre non fa in tempo a buttare un revolver che non viene però scovato.

L’episodio sul momento è ritenuto tutto sommato marginale e il “professorino” non viene accusato di nulla, tanto meno di far parte del livello clandestino di una qualche organizzazione. Di certo non si sospetta che Fioroni faccia parte di “Lavoro Illegale”, il braccio armato e clandestino di Potere Operaio: il gruppo infatti aveva fin dal 1971 fatto circolare una voce in base alla quale l’uomo non faceva più attività politica. Almeno non con loro. E questo nonostante nel settembre dell’anno prima la terza conferenza di Potere Operaio, tenutasi a Roma, avesse annunciato – quantomeno a parole – il passaggio alla lotta armata attraverso tre momenti: la pratica costante dell’appropriazione, la pratica costante dell’insurrezione e la pratica costante della rivoluzione armata.

Il 14 marzo 1972 poi la questura di Roma diffonde un rapporto con cui annuncia la nascita di una nuova organizzazione: il FARO (Fronte armato resistenza operaia), ritenuto responsabile di due attentati dinamitardi e di uno incendiario avvenuti nella capitale il 5, il 10 e l’11 dicembre 1971. Va perquisita la sede di Potere Operaio, si dicono gli inquirenti, e ottenuto il mandato vengono sequestrati diversi documenti ritenuti sospetti. Tra questi un elenco dattiloscritto di appartenenti a POTOP e a capolista c’è Carlo Fioroni, indicato come responsabile della struttura milanese. Inoltre ce n’è un altro, di elenco: quello che riporta i nomi di alcuni magistrati che, si dice, sarebbero orientati in favore di Potere Operaio e disponibili a trattare l’esito dei processi in corso a Roma contro i fascisti.

Ma il 14 marzo 1972 accade anche un altro fatto che sconvolge – questo sì e nel modo più radicale possibile – buona parte della sinistra extraparlamentare e non solo: quella mattina, ai piedi di un traliccio dell’alta tensione di Segrate, viene trovato il corpo di un uomo ucciso da un’esplosione. Il documento che gli viene trovato addosso lo identifica come Vincenzo Maggioni. Il suo vero nome però è un altro: Giangiacomo Feltrinelli, l’editore rivoluzionario che, abbandonata la casa editrice che aveva fondato nel 1954, si dà alla clandestinità assumendo anche l’identità di Osvaldo, frequenta i separatisti sardi e i rivoluzionari cubani, ha contatti con i gruppi terroristici europei e con i Tupamaros uruguaiani, ne pubblica gli scritti e pianifica una lotta di liberazione in Italia, prolungamento ideale e militare della Resistenza al nazifascismo, con lo scopo di spazzare via l’oppressione imperialista partendo inizialmente dalle aree rurali per spostare poi lo scontro nei grandi centri industriali del nord. Così rimbalza la notizia della sua morte a livello di apparati di sicurezza:

15 marzo 1972 – Da Centro CS a Reparto D7

Alle 16.20 del 15 corrente a Segrate (Milano) è stato ritrovato ai piedi di un traliccio di linea ad alta tensione il cadavere di Maggioni Vincenzo di anni 46 nativo di Novi Ligure (Alessandria) e residente a Milano. Il Maggioni finora non noto. Il decesso è da attribuire a prematuro scoppio di carica esplosiva. Nei pressi del cadavere rinvenuti: roulotte tipo Volskwagen, alcuni candelotti di dinamite, duecentomila lire, novanta franchi svizzeri, banconota da mille lire.

16 marzo 1972 – Da Centro Medusa a Reparto D

Mazzucchi da Vienna comunica che: “Tizio di Milano” dal 20 al 27 febbraio era ad Oberhof. Il 27 febbraio alle 18.30 è partito accompagnato dalla moglie portando seco documenti fasulli.